Spedizione gratuita in Italia per ordini a partire da 49€

sitename
0,00

Carrello

Pagamento sicuro

Si è aperta ieri la mostra dedicata al libro vincitore del concorso “Balena di Ghiaccio”. Nello Spazio LOC di Capo d’Orlando un centinaio di opere di tutte le scuole secondarie di II grado orlandine.

Articolo di Anna Maria Curci
originariamente pubblicato sul trimestrale Periferie - direttori Manuel Cohen e Vincenzo Luciani

L’isola, l’approdo a un’isola, il sogno di un’isola, ha accompagnato nell’immaginario l’esistenza di molti di noi; per quanto riguarda la mia generazione, dai romanzi della fanciullezza, prima Salgari, poi Stevenson e Swift, questi ultimi riletti in anni universitari, alle isole dell’Odissea, scoperte nelle ore di epica in prima media e poi riesplorate al liceo e attraverso la letteratura del Novecento. C’è stato poi l’universo di un esilarante bestiario con la Corfù di Gerald Durrell (La mia famiglia e altri animali). E, ancora, la poesia, dal romanticismo di Coleridge e Shelley (e «l’isola de’ poeti» di Carducci in Presso l’urna di Percy Bisshe Shelley) fino a Hilde Domin con l’isola di Santo Domingo dalla quale la poetessa trae il nome con il quale battezza la sua seconda nascita, la nascita alla creazione poetica.

Leggere Cercando l’isola di Salvatore Ritrovato, “libretto alla leporello”, arricchito dagli acquerelli di Sighanda, e tornare, con lo stesso entusiasmo degli anni giovanili, a quella ricerca, è una cosa sola, stavolta, forse, con una memoria di viaggi passati che aguzza lo sguardo e rende tanto più apprezzabile la nota personale, l’arguta inventio così come il nuovo pensoso, meditato approdo. Nel tragitto da Ulisse/Nessuno a sé, il viaggio è variegato, eppure ha una sua profonda unità. Cercando l’isola – e ‘alla cerca’ ci si imbatte nelle diversità più affini e nelle familiarità più stranianti – si toccano approdi intermedi, si lambiscono sponde di conoscenza e ri-conoscenza.

Ultime notizie di Ulisse mescola abilmente l’atmosfera animata da un viavai di persone – tutte senza nome, sono «uno», «un altro», poi ancora «uno» e infine «la gente» – e dalla polifonia di elementi naturali e indizi di episodi omerici con la sorpresa tagliente del ricordo, che spiazza e sperde sicurezze: «Una lama bizzarra di ricordi recide l’ugola/ della nostra indifferenza a ogni ritorno/ “Nessuno”, disse uno, e si perse fra la gente.» L’isola del tesoro, esplicito riferimento a Stevenson, ha invece il ritmo irresistibile della strofa ricordata da Mark Twain in Punch, Brothers, Punch (che la mia generazione ricorda come “O fattorino dal ciuffo nero”): «Marinaio, salta a bordo, prendi il timone. / Presto si salpa verso l’isola dove fu nascosto / (né fu mai trovato) il bauletto di Arpagone. / Colà giunto scendi cauto (qualora / te ne sia dimenticato) nella scialuppa: / porta un cuscino per stare comodo. / A mezzogiorno guarda in alto sul posto / vola un colombo travestito da storione; / laggiù potrai assaggiare anche l’arrosto.»

Poco più avanti, chi legge si trova nella terribile bonaccia narrata da Coleridge. The ancient mariner si configura, escluso il penultimo verso, come narrazione al passato, proprio come avveniva nel testo dell’autore di riferimento. Colpiscono qui, tuttavia, le formulazioni sapide e incisive che non solo condensano il racconto del vecchio marinaio, facendo ri-conoscere i tratti salienti, ma riescono perfino ad aggiungere accenti, sfumature, esiti: «Un marinaio dall’occhio lesto / la barba candida scomparve / in un rogo di fischi il giorno dopo. / Sempre più lontana la costa fuma. / Il mio diario di bordo era finito.» Una «barba candida» ritorna nella poesia L’esilio, dedicata a un destinatario la cui esistenza stessa è avvolta nel mistero: il poeta Mehmet Gayuk.

Che il tema dell’esilio fosse una tappa importante di questo viaggio, forse non sorprende, e forse non era peregrino, a questo proposito, il mio richiamo iniziale alla poesia di Hilde Domin. Anche qui, tra i punti cardinali di questo universo della ricerca troviamo il ritorno (che tornerà poi, già nel titolo, in Nostos, poesia a sua volta dedicata allo scrittore greco Vassilis Vassilikos), insieme all’approdo; anche qui una rivelazione spiazzante, senz’altro non consolatoria, è in agguato: «Ha l’occhio luminoso, la barba candida per gli anni / l’ultimo ospite che ha lasciato ogni cosa / soggiogato dal ricordo di un nuovo approdo. / Ma non c’è approdo, gli dicono, solo navigazione.»

Nella navigazione il pericolo è sempre in vista; ne Il pescecane, il pericolo si palesa come a sua volta minacciato, «sbattuto contro gli scogli di Naupatto», e il pensiero va alla storia, alla guerra del Peloponneso. Che cosa è più cieco e furioso, ci si chiede allora, chi inghiotte chi? Ecco che, cercando l’isola, ci si imbatte nell’immaginario shakespeariano, non, tuttavia, come ci si potrebbe aspettare, nell’isola della Tempesta, bensì in Otello, sua eco nelle stanze vuote. Attenzione, però: anche in questo caso, come nelle poesie precedenti, un componimento sembra tendere la mano a quello precedente, attraverso una formula, un indizio, un elemento di congiunzione.

Se in precedenza una «barba candida» era stata il trait d’union, tra Il Pescecane e Otello, sua eco nelle stanze vuote è una tempesta ad assicurare la continuità, prima dipinta nelle sue conseguenze (il pescecane sbattuto contro gli scogli), poi menzionata esplicitamente: «Eccomi alla fine del viaggio. / Senza la bussola ma più vicino / al faro del più nero approdo. / Perché indietreggiare? / Oh tenebre, oh tempesta / per che paura? Dolce e buia / è la verità puntata al petto / come una cometa nello spazio / fra l’aorta e la vena mitrale / mentre io mento ancora / nel ruolo di amante modello.» In Nostos, componimento al quale abbiamo accennato prima, troviamo invece nella bonaccia un ulteriore collegamento con The ancient mariner: «Quel giorno la bonaccia tenne ferme / le bandiere sull’altana e planavano i gabbiani / come ombre lente sulla stiva.»

Dopo la «distesa scabra di dune», la desolazione di una riva che sembra attendere l’emancipazione da un naufrago che vi approdi in Leggendo Shelley, è la terra «di sopra», di «chi vive sopra», dove un vento «strazia ombre e giorni», a spiccare in contrasto con un mondo fantastico delle profondità in Solaris. Sarà, forse, quello stesso vento a cadere beffardo su un’isola raggiunta, «su quest’isola», come si sottolinea a più riprese nel componimento conclusivo, Perduta chi sa dove. Tutta l’esistenza, e il suo volgere altrove, l’anelito e il dolore, scorrono qui e confluiscono l’uno nell’altro. Chi legge, si ferma qui con commozione.

Di un’assenza si parla – la dedica è A Anna / (au fond d’un petit café en fumé, mal éclairé) – e di un’attesa, così che è in questo finale che, per la prima volta in questa raccolta, all’imperfetto si intrecciano i tempi del futuro semplice e del futuro anteriore: «Fumare una sigaretta sarà una cosa vecchia: / la tua ‘ultima’ volerà via come una foglia secca. / Su quest’isola, qualcuno un giorno troverà macerie, / gli stagni asciutti, un pozzo che scende / nel cuore stanco di una civiltà perdente. / Su quest’isola nessuno parla più la lingua di un tempo, / anzi nessuno parla più, resiste qualche ombra / appesa a un chiodo come ricordo di un altro mondo. / Su quest’isola ti avrò aspettato a lungo.»

Chi legge prende congedo da questo libro con il desiderio e l’impegno a tornare, con ri-conoscenza per il suo equilibrio perfetto, per il confluire e fondersi di pathos e forma cristallina. Salvatore Ritrovato, Cercando l’isola, Fiorina Edizioni 2017.

Articolo di Patrizia Sardisco
articolo originale su Un posto di vacanza - Fotografia di Monica Lanza

Il premio La Balena di Ghiaccio presenta la giovane poesia siciliana

Sabato 23 dicembre alle ore 18.00 presso lo Spazio LOC Laboratorio Orlando Contemporaneo in Via del Fanciullo 2 a Capo d’Orlando, la Balena di ghiaccio – il premio di poesia per i giovani dedicato al poeta e psicoanalista orlandino Basilio Reale e sostenuto finanziariamente dall’Assessorato alla Cultura di Capo d’Orlando e dal LOC – terrà a battesimo la giovane poesia siciliana e cinque giovanissimi artisti in occasione della presentazione di un libro che rende orgogliosa la comunità orlandina e l’isola tutta:

Per fuoco non per tempo, di Federica Corpina

Appena diciottenne, Federica vince il III Seme 2017 della Balena – premio ormai consolidato nel panorama nazionale – e firma il terzo numero della collana di poesia contemporanea inedita, Isolario, diretta da Maria Grazia Insinga (ideatrice e curatrice della Balena di ghiaccio) grazie all’entusiasmo dell’editore Giovanni Fassio.

Non si tratta di un libro ordinario, ma di un leporello, un pregiato volumetto imbastito artigianalmente a soffietto, stampato in numero limitato di copie firmate a matita dall’Editore. Un modo antico di fare editoria: si pensi al Muraqqa islamico, versato al bello, alla cura estrema dei dettagli, alla simbiosi di parole immagini carta; e si pensi a Leporello, il servitore nel Don Giovanni di Mozart che portava sempre con sé il catalogo piegato a fisarmonica delle imprese amorose del suo padrone.

Il leporello della Corpina è composto da cinque sezioni – Esilità, Pelle, Cartilagine, Ossa, Cenere – attraverso le quali il corpo adolescenziale si trasforma e si scompone. Domina il colore bianco, un bianco che divora; come un’acrobata, la poetessa raggiunge una via d’uscita e nel silenzio del sigillo finale nasconde al lettore la sua verità. Ad accompagnare visivamente i versi inediti di Federica Corpina sono le opere realizzate dagli studenti del Liceo Artistico “Lucio Piccolo” nell’ambito di un concorso al quale hanno partecipato tutte le scuole secondarie di II grado di Capo d’Orlando.

Le illustrazioni di Salvatore Emanuele, Gabriele Letizia, Greta Piazza, Michaela Pinto, Nina Ricciardi e Antonella Maura Tascone (docenti: Salvatore Barca, Sabrina Busà, Anna Paola Cataldo, Vittorio Perna) – ispirate ai temi della scrittura di Federica – sono state selezionate su un totale di quasi cento disegni dalla giuria della Balena costituita da Marco Bazzini, Giacomo Miracola, Matteo Reale, Domenica Sindoni, Giovanni Spinicchia, Maria Grazia Insinga e presieduta da Emilio Isgrò.

Questo libro – interamente finanziato dall’Editore – è, dunque, un germoglio che sboccia dall’unione di una casa editrice visionaria, Fiorina, con un premio letterario vocato a gettare semi d’arancia propizi alla nascita di nuove generazioni di lettori, di artisti, di poeti.

Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo un assaggio della poesia di Federica:

larga pupilla quasi
tentativo trascendentale
di cogliere la luce dall’uscita
o è ricordo di quando entrammo
violando il buio per paura

oppure non fa per noi

questo bianco divora
a volte anonima mi sfido
a inventare una forma
e mai conforme al puro
e pure creste ribelli
[…]

Articolo di Rosa Pierno
articolo originale su Trasversale - Fotografia di Domenico Piccione

Abbattuti i confini tra umano e divino, la favola incombe occupando l'intero spazio e i reliquiari ora divengono ceste di simboli, i quali, avendo perso la loro collocazione funzionale, restano a galleggiare nell’aria liberati dalla forza di gravità dei diversi contesti. Ex-voto, rami di corallo, cuori, seni, calzari, in bilico tra i regni della religione e della mitologia, se sembrano roteare nell'aria senza ancoraggio sono anche contemporaneamente disponibili a un nuovo uso, ad assumere, pertanto, una nuova significazione.

La macchina che abbatte tutte le separazioni esistenti tra i regni - ove alcune delle cesure precedenti erano il frutto di un'attività separatrice derivata dalla necessità della classificazione scientifica aristotelica o di contesti che per la loro complessità semantica e per le loro caratteristiche ibride, mal sopportavano la presenza delle categorie, - è al centro del nuovo libro che Maria Grazia Insinga ci consegna sotto forma di pregevole leporello nelle edizioni Fiorina.

In ogni caso, sia le separazioni, sia l’indistinzione fra le classi sono il frutto dell'invenzione umana e per questo si può parlare di un'ombra estetica che ricolora tale scenario, donandogli una maggiore profondità La Insinga restituisce a questi separati regni una contiguità che ripristina la loro interezza, costituendo un unico serbatoio da cui scegliere per ridonare una seconda vita ai materiali e conferendo loro, in tal modo, una duttilità che consenta al suo gesto poetico di tracciare un nuovo disegno, più adeguato a rappresentare la visione che la poetessa siciliana ha della realtà.

Tuttavia, è proprio grazie alla polisemia straniante che i simboli assumono con questo atto ricostituente - e l’imprecisione è parte integrante del riconoscimento della complessità irriducibile dell’oggetto - a far loro acquisire il potere di trasformare le contraddizioni in una logica dell’assurdo. Non siamo di fronte alla costituzione di un nuovo sistema, poiché vi è la volontà di non espungere i significati oppositivi, di conservarli, cioè, come necessari, come risultato definitivo. Sfilano dinanzi agli occhi il mostro e la bella, la fine che non si conclude mai e l'inizio che non può aver luogo.

La divinità è declassata dalla sua incapacità di non poter "toccare terra", la bestia è un'invenzione più vicina all’umano di qualunque altra cosa, che sia mostro mitologico o ridotto al rango di vittima nella favola popolare, mentre il personaggio dell'avvelenatrice sembra essere colei che se avvelena con il suo pensiero separatore, è anche colei che consente la circolazione tra i regni finalmente comunicanti.

È la madre che genera, ma è anche la terra percorsa, è mostruosa a sua volta, oltre che dispensatrice di beni. In un formidabile nodo che stringe materiali distantissimi, Maria Grazia Insinga ci offre una possibilità che a ogni passo si svolge in una negazione per aprirsi alla variazione. È per questo che abbiamo parlato di arte e, naturalmente, un’arte che mette in comunicazione varie forme espressive!

Rosa Pierno

ora che lei è relegata
a divinità ora che lei è
legata da divinità ora
che lei è relegata a

il sole non è degno di splendere
sul suo capo ma l’altra dall’altro
capo non ha eppure splende
e dovrà sette anni digiunare
in totale oscurità fustigata
da guardiani a difesa di protocollo
ma non ricordo più il perché

il sole sul suo capo ma l’altra
splende e splende sette anni

se un cane entra nella casa
il cane è ucciso

l’altra è incoronata senza testa e corona
da quel momento cammina sulla tigre
e il piatto d’oro e per i resti e la vita
non permetterò ai suoi piedi di toccare
nuda terra: per calzari pelle di cinghiale

assi di legno tappeto di foglie i miei piedi
a scaricare al suolo tutta quella divinità
carica di elettrico isolamento non è
cosa di isole detonare è togliere tono
a suono a suolo e rimangono allora
tabù reliquie micce feticci e fuochi

Articolo di Guido Caserza
articolo originale su Il Mattino - lunedì 2 ottobre 2017 - cultura, p. 14

L'editore Fiorina rinnova la tradizione dei libri come oggetti d'arte

Per sciorinare a donna Elvira il catalogo delle conquiste del marito, il servo di Don Giovanni, ove memoria non lo soccorreva, faceva affidamento sulla lista delle amorosette trascritte sopra un foglio piegato a fisarmonica che recava sempre con sé. Un manufatto le cui origini risalgono alIX secolo e che, dopo l'opera di Mozart, venne chiamato Leporello, in onore dell'impudente servo. Ne rispolvera ora i fasti tipografici la casa editrice Fiorina, che rinnova la tradizione dei libri come oggetti d'arte stampando una serie di mirabili Leporelli: 24 paginette custodite in astuccio cartonato che, una volta dispiegate, misurano tre metri e mezzo, e in cui scrittura e immagini si alternano a mutuo commento.

Leporello è nome di aerea consistenza, che richiama alla mente preziosismi letterari e artistici e malìe tipografiche per bibliofili. E invero il catalogo si fregia di contributi d'autore d'alto livello. C'è, per esempio, Gatsby a West Egg, concettosa divagazione dell'americanista Francesco Meli intorno al grande Gatsby, mentre lo zoologo Silvio Spanò con La beccaccia offre al lettore un curioso ibrido letterario, tra il manuale di zoologia fantastica e quello di ornitologia. Rilevante poi è la pubblicazione di Concologia per l'occhio e per la mente, in cui il poeta Marcello Frixione da sfogo di virtuosismo ecfrastico con le sue quartine apposte a commento delle figure di chiocciole scansionate e volte al negativo dall'artista Mauro Panichella, in un raro esempio di compiuto connubio fra immagine e parola.

di Gio Ferri
articolo originale su Testuale critica - Fotografia di Beppe Ferrigno

In Testuale critica n.60/2017 Gio Ferri legge “Etcetera” di Maria Grazia Insinga (Fiorina Edizioni, Varzi, 2017)

Milano, 16 giugno 2017

Gentilissima Insinga,
la ringrazio innanzitutto di questo “Etcetera”: un vero e proprio gioiellino editoriale. Da tenere sul tavolo come un oggetto splendidamente decorativo. Bellissimi, e … metafisici, gli acquarelli di Alessandra Varbella. Ma quelli che più contano, ovviamente, sono i testi. Appropriato e indicativo è l’esergo che riporta la poesia di Rainer Maria Rilke su quell’animale favoloso, surreale appunto, che è l’Unicorno. Questa citazione fra l’altro scatena una dialettica poetica paradossale e passionale fra la bestia, il mostro, il terrore e l’amore:

la beatitudine supera
la vocazione alla beatitudine...

mentre Paul tornava all’oscuro
col membro eretto per l’ultima volta...

La fascinazione del membro maschile, della bestia meravigliosa, e la sua amorevole fantasmatica minaccia:

... le giumente in minuscoli pruni scomposte
vi scendevano e di così sensuale
non avevo mai visto

Rammento l’arte ‘scandalosa’ dei tempi di Oscar Wilde, nell’ipocrisia vittoriana (posso dire, anche attualmente, per quanto attiene le pruderie di gran parte della poesia pseudoromantica che svilisce il senso stesso delle nascoste passioni?). Quando non si dà poesia senza passioni. Tensioni sessuali potenti e per l’appunto anche paurose. E ricordiamo la sensualissima Salomé che bacia la terribile testa di Giovanni:


un intero bosco di bestemmie silvestri …
...
lei è sana e io
maledetta!
...
l’odio tutto e l’amo di banale amore amaro

Se è vero che la poesia si basa sulla selezione e combinazione delle parole in una sequenza dominata dal principio di equivalenza (lo stretto rapporto semantico e fonetico dei segni), in “Etcetera” tale rapporto non è tanto, o solo, un principio di equivalenza secondo questa ipotesi classica, quanto una realtà scritturale il cui rapporto, al di là del ritmo (qui assolutamente diseguale) e delle figure classiche, si pone fra esclamazione e tormento sensuale. C’è tutta una insistita serie di figure traslate, ambiguità, polisemie da transcodificare. Il lettore per l’appunto è costantemente chiamato a ricollegare i vuoti lasciati dagli enjambement. Dovendo prendere atto tuttavia che la parola


... non sa dire non c’è fine se non da finire
non c’è inizio non c’è inizio da iniziare

È persin banale pensare a un’aura freudiana: va messo l’accento, piuttosto, non sulle sequenze dell’inconscio, bensì della dichiarata corporeità. Il dio è il corpo:


dentro il nicchio di ulivo preservate
il sacro corpo da sacrilegi

La caratteristica costante, dal punto di vista formale, è l’asintattismo: i salti, i baratri dell’espressione spingono all’idea, anche figurativa, di una corporeità scritturalmente sovente distorta. Come, si possono citare in proposto, solo per fare un esempio utile a capirci, le fantasmatiche contorsioni surrealistiche delle ‘bambole fanciulle’ di Hans Bellmer. Ma d’altro canto, per diversa via, sono frastagliare e diseguali le stesse striature nervose delle conchiglie di Alessandra Varbella.

È il corpo bramato e ‘massacrato’ del Giovanni di Salomé. Acutamente nota Rosa Pierno: “La scena è non più umana né divina, il divino vi appare come ciò che è ridimensionato rispetto all’umano, ma anche l’umano, senza l’aiuto dei precedenti recinti, smarrisce la possibilità di finire e la capacità di pensare l’inizio”. Devo capire che i “precedenti recinti” altro non sono che le norme innaturali imposte dalla stanca tradizione alla scrittura?

Articolo di Emiliano Alessandroni
articolo originale su laletteraturaenoi.it
«Ancor gustate qualche leccornia / di quest’isola, quale non vi lascia / le cose vere scerner dalle false»

(William Shakespeare, La Tempesta)

«Il mare è qualcosa d’indeterminato, illimitato, infinito, e l’uomo, sentendosi in mezzo a questo infinito, è incoraggiato a varcarne il limite»

(G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia)

Sulle ultime poesie di Salvatore Ritrovato

Benjamin e le rovine

Riprendendo il filo della prima raccolta, Quanta vita (1997), l’ultima silloge di versi di Salvatore Ritrovato Cercando l’isola, Fiorina, Varzi 2017 torna a proiettare il senso dell’opera su un orizzonte esistenziale di immagini e situazioni legate alla navigazione. L’ombra di Walter Benjamin, benché il suo nome risulti assente dalla grande messe di citazioni che affollano i versi, si staglia forse piu di ogni altra sullo sfondo delle pagine, come una tela su cui si accingono a prender forma i più svariati moti d’animo. L’adesione a tale orizzonte sembra essere, invero, sia filosofica che estetica.

Filosofica giacché l’idea di realtà che i componimenti lasciano intravedere, rassomiglia per molti aspetti a quella di un arido deserto o di un cumulo di rovine. Estetica in quanto, come Benjamin riteneva, il presente appare talmente frammentato e parcellizzato che per restituirne l’unità, ovvero per attingere una qualche forma di universale, sembra non si possa far altro che ricorrere all’allegoria. Ma vi è un terzo elemento che ci riconduce ancora entro il quadro prospettico del filosofo tedesco, e che costituisce, in qualche modo, una delle chiavi con cui prepararsi ad aprire il forziere di questi versi: l’ostinato rifiuto ad accettare deserto e rovina come traguardi ultimi dell’umanità, la risoluta perseveranza con cui viene ricercata spasmodicamente quella che per l’appunto Benjamin designava come una via d’uscita dalle macerie.

Macerie e nostos

Qui si introduce allora il motivo del nostos, fulcro tematico del volumetto. Questo termine, che presta il nome ad uno dei componimenti («ma la nave andava come un albero / che stende i suoi rami al vento», Nostos), indica, sappiamo bene, nostalgia, ma significa anche, come noto, viaggio di ritorno, sicché se da un lato appare legato alla mancanza e alla pena, dall’altro resta inseparabile da quella massa di sentimenti che il viaggio (ancorché di ritorno – basti qui tener presente soltanto l’antecedente dell’Odissea) reca con sé: desiderio, ricerca, tentazione di conoscenza. Il tema della nostalgia dunque, assiepato tra i versi di queste poesie («su quest'isola nessuno parla più la lingua di un tempo, / anzi nessuno parla più, resiste qualche ombra / appesa a un chiodo come ricordo di un altro mondo», Perduta chi sa dove;

«Una lama bizzarra di ricordi recide l’ugola / della nostra indifferenza a ogni ritorno». Ultime notizie di Ulisse), non va separato dal tema del viaggio in direzione di una nuova terra che riconferisca un più stabile equilibrio tanto agli spasimi dell’anima quanto a quelli del mondo («un’isola, un approdo, un porto di mare...», Incipit). Un viaggio verso una nuova condizione storica ed esistenziale, verso un’isola, dunque, che non sia foggiata di «solo silenzio», ovvero di macerie, stagni asciutti e cuor[i] stanc[hi], qual è quella che sembra profilarsi sull’orizzonte di questa galassia occidentale, vale a dire di questa nostra «civiltà perdente» (Perduta chi sa dove).

La scrittura

Strumento privilegiato di questo viaggio sembra essere la scrittura e per certi versi la poesia stessa («Che cosa stringe allo stesso cielo il mio respiro e questa carta? / Sento in ogni verso un lungo interminabile naufragio», Incipit). Da questo punto di vista, il rapporto con il verso scritto che viene evocato, sembra collocarsi entro quel solco attitudinale che in Italia, più di ogni altri, Amelia Rosselli aveva contribuito a tracciare. Non è un caso ch’essa amava definirsi poeta della ricerca. E non è un caso, pur tenendo conto della profonda distanza che intercorre tra le loro scritture, il largo ricorso agli enjambement dei due poeti, quasi a voler ridurre al minimo i momenti degli approdi per ingenerare, nel lettore, il senso di una incessante navigazione.

Ad ostacolare gli ancoraggi (ma si badi bene non tanto per un voluttuoso piacere di viaggiare quanto per una bramosia di attracchi più significativi), oltre all’enjambement interviene il frequente ricorso all’ironia e alla parodia, sintomo di quella «civiltà perdente» precedentemente menzionata (come, d’altro canto, erano il sintomo delle contraddizioni del mondo ellenico il teatro di Aristofane e della dissoluzione della cavalleria l’opera di Cervantes). Apre significativamente la raccolta Ulisse, iniziatore letterario di tutti i viaggi, con il suo corollario di figure tratte dall’Odissea: la maga, la sirena, Nessuno. Ma quel Nessuno diventa, nel suo significato letterale, parodia del significato letterario e chiude quel senso d’angoscia tutto moderno con cui si apre il componimento: «Al porto s’imboscano ostinatamente / immoti e radi gli umori della luna».

Certezze e vento della storia

L’Ulisse stesso di cui si parla, quindi, nonostante il circondario figurale sopra menzionato, sembra rassomigliare, per molti aspetti, più all’Ulisse di Joyce che a quello di Omero. In questa mescolanza di scenari e personaggi si cela ancora una volta l’intento di ostracizzare i facili approdi, rifiutare le isole limitrofe e le certezze vane. Ma quali sono queste certezze? Sono, ci suggeriscono i versi, le certezze delle superfici, i detriti delle illusioni, costrette a lungo andare ad essere travolte dal vento della realtà:

Certi uomini trascorrono sopra la loro vita [...]
Prendi questo vento, faccio a chi vive sopra.
Violento spazza ogni rumore dalla terra
rovista, strazia ombre e giorni,
laggiù le porte cigolano sui cardini di rame.
E dove vanno? Gli ospiti che incontri
ti diranno che hai la febbre
non esiste altrove, sopra, che la mente.

(Solaris)

Il vento, pertanto, veicolo della trasformazione, uccide chi sta sopra. Chi sopravvive tra la scorza dell’esistenza e non trova il coraggio di immergere anima e corpo nella polpa della vita. Costoro, appaiono al poeta, ancor più che sotto la veste di sonnambuli, sotto quella di cadaveri, sicché le loro voci, il loro reiterato invito ad abbandonare i sottosuoli e le correnti sotterranee per vivacchiare tra le schiume esteriori, suonano all’io poetante come voci che provengono direttamente dalle bocche degl’Inferi: «“Lascia perdere il sentimento; / si sta bene... Senti che silenzio!” / fece una voce nella tenebra viva / che sembrava uscire dall’inferno» (Nostos). Ma questa tirannia della superficie, più che riguardare alcune schiere di individui, sembra coinvolgere lo spirito di un’intera epoca.

Riecheggiano invero in questi ultimi versi, sia qui concesso lo strano, ma a ben vedere calzante parallelismo, le parole che Bukowski, nel racconto Rosso come un giaggiolo, pronuncia al dottore in una delle sue Storie di ordinaria follia: «L’uomo è vittima di un ambiente che non tien conto della sua anima». È questo intero ambiente che, ci suggeriscono le parole e le perifrasi di Cercando l’isola, verrà ricacciato nei suoi fondachi dal vento della storia, ovvero della trasformazione. Come e quando questo avverrà resta un mistero: quel mistero che, dal principio alla fine, aleggia fra i versi di questa raccolta e che l’insieme di allegorie, diminutio e parodie concorrono ad alimentare nel petto non meno che nella mens del lettore.

L’Incontro di Volpedo, 30 settembre 2017. Questo il tema del Festival di Volpedo, che continua l’evoluzione della storica Biennale di poesia di Alessandria. In un contesto di straordinaria bellezza paesaggistica e culturale (il paese è da tempo inserito nella lista dei Borghi d’Italia), ma soprattutto di amicale collaborazione e fertile scambio di idee, poeti e critici, per una volta senza sterili divisioni di compiti e scopi, porteranno il proprio costruttivo contributo.

Se ai critici è richiesto di affrontare il tema con gli strumenti della critica letteraria intesa nel senso più ampio, una nutrita scelta di poeti rappresentativi porteranno esempi concreti di come la poesia possa ancora parlare del mondo e dell’uomo con la forza espressiva della forma artistica che da sempre, più di ogni altra, connota la cultura del nostro Paese.

Sabato 30 settembre a Volpedo (AL), all’interno della Biennale Di Arte, Cultura E Spettacolo dedicata al grande Giuseppe Pellizza da Volpedo la Biennale Di Poesia Di Alessandria organizza un grande momento di poesia "Dove va la poesia?", sono chiamati a confrontarsi, con testi e riflessioni, poeti e critici.

Programma:

  • Ore 10,30 - Registrazione e Apertura
  • Ore 10,45 - Emanuele Spano: Introduzione
  • Ore 11,00 - Riflessioni: Salvatore Ritrovato (Un. Urbino)
  • Ore 11,20 - Lettura: Fabrizio Bregoli, Roberto Valentini, Elena Cattaneo, Alfredo Rienzi, Riccardo Olivieri
  • Ore 11,50 - Riflessioni: Giancarlo Pontiggia
  • Ore 12,10 - Lettura: Guido Oldani, Loris M. Marchetti, Enrico Marià, Roberto Chiapparoli, Silvio Aman, Attilio Giannoni
  • ORE 12,40 - BUFFET E VISITA DEL PAESE
  • Ore 15,15 - Aldino Leoni presenta gli Atti della XVIII Biennale (2016)
  • Ore 15,30 - Lettura: Giancarlo Pontiggia, Salvatore Ritrovato, Ivan Fedeli, Mauro Ferrari
  • Ore 16,00 - Riflessioni: Giuseppe Langella (Un. Catt. S. Cuore, Milano)
  • 16,20 - Intermezzo musicale del gruppo dell’Incanto: Serafina Carpari (voce), Daniela Desana (voce recitante), Aldino Leoni (voce), Gino Capogna (percussioni), Mario Martinengo (chitarra), Andrea Negruzzo (pianoforte), Giorgio Penotti (chitarra, fiati, voce)
  • Ore 16,50 - Riflessioni: Giuseppe Zoppelli
  • Ore 17,10 - Lettura: Massimo Morasso, Vanda Guaraglia, Leila Rossi, Corrado Bagnoli, Francesco Macciò, Alessandra Paganardi
  • 17,50 - Intermezzo musicale del gruppo dell’Incanto
Articolo di Rosa Pierno
articolo originale su versanteripido.it - Fotografia di Ariane Deschamps

Maria Grazia Insinga

[dropcap style=" "]M[/dropcap]aria Grazia Insinga, dopo la laurea in Lettere moderne, il diploma in Conservatorio e in Accademia si dedica all’attività concertistica e all’insegnamento nelle scuole secondarie. Nell’ambito degli studi musicologici censisce, trascrive e analizza i manoscritti musicali inediti del poeta Lucio Piccolo. Suona in un duo pianistico ed è docente di Pianoforte presso l’Istituto “G. Verga” di Acquedolci (Messina). Nel 2014 la raccolta “La porta meta fisica” è segnalata al Premio Montano. Sempre nello stesso anno, con il sostegno dell’Assessorato ai Beni Culturali di Capo d’Orlando, idea il Premio di poesia per i giovani “Basilio Reale” La Balena di ghiaccio giunto alla terza edizione e presieduto da Emilio Isgrò. Alcuni testi si trovano in riviste e antologie: “Il rumore delle parole” (Edilet, 2014) a cura di Giorgio Linguaglossa; “Blanc de ta nuque” Vol. II (Le voci della luna, 2016) a cura di Stefano Guglielmin; “Umana, troppo umana” (Aragno, 2016) a cura di Fabrizio Cavallaro e Alessandro Fo; “Punto. Almanacco di poesia” (puntoacapo, 2017) a cura di Mauro Ferrari; “Osiris Poetry” n. 84 (Andrea and Robert Moorhead, 2017). Nel 2015 vince il concorso Opera prima, iniziativa editoriale diretta da Flavio Ermini e a cura di Poesia2punto0, con la silloge “Persica” (Anterem/Cierre grafica). Nel 2016 entra a far parte del consiglio editoriale di Opera prima. Nel 2016 la raccolta “Ophrys” è finalista alla XXX edizione del Premio Lorenzo Montano. Nel 2017 pubblica il leporello in versi “Etcetera” (Fiorina edizioni) e la raccolta “Ophrys” (Anterem). Cura la collana di poesia Isolario per Fiorina.

Il registro della tua poesia si svolge sapientemente tra aulico livello e gergo popolare, disegnando una sorta di recinto che accoglie sacro e profano. La favola, l’oblio, con il loro portato ricorsivo, delineano una scrittura potente. Parlaci di questa che noi leggiamo come forza impetuosa.

Spero si tratti di carbone dal Don o nafta di Bakù. «Dateci nuove forme», dice Majakovskij.

“Etcetera” (Fiorina edizioni, 2017) è un dialogo privatissimo con l’altra, un dialogo in cui la bestia degenera in uomo e l’uomo è relegato a divinità. In questo recinto l’umanità nella direzione dell’umanità non pare faccia passi avanti. Solleviamo l’umano a divino fino a perdere il senso del reale: questo divino nasce da una natura evidentemente snaturata. E restiamo privi di coordinate in un mondo, per fortuna, da rifare.

Sin dalla dedica – A Nike e a Nike – “Ophrys” (Anterem, 2017) predilige figure umane divinizzate per via di roghi e decapitazioni; ed elegge pure Apollo, il cui torso rilkiano, nella moncanza, conserva l’armonia dell’unità, del tutto.

In fondo, l’ossessione è sempre quella della forma o del deforme: il morso della “Persica” (Anterem/Cierre grafica, 2015), in quella moncanza, restituisce il piacere del tempo primo dove nulla è discretizzato. Forse, la forza impetuosa viene da questo nulla, da ciò che manca, dalle soglie dell’impronunciabile e da nuove forme inevitabilmente venute fuori da una versificazione deforme. Forse, l’impeto muove da questo corpo sezionato – in “Ophrys” e in “Etcetera” – che è anche il corpo della scrittura, se la parola è carne, la poesia corpo, un piede destro e duplex cor in unico petto.

[…]

il resto mancante
mancanti la testa e i piedi
e tutto il resto mancante
che testa e piedi divide
cetera desunt… cetera desunt…

[…]

I versi sono di Bartolo Cattafi; la musica di Lera Auerbach: “Quartetto per archi n.3”, VIII Movimento.

Il dialogo è privatissimo, dicevo, e inanella di tanto in tanto termini dialettali e colloquiali; ma il registro, evidentemente, risulta aulico tessendo le preziose rotte dei corallai tra acqua e terra e aria nelle favolose carte di Idrisi o nei bestiari quasi medievali popolati da unicorni, mostri, dee e versiere. Un linguista userebbe la locuzione latina vox media: ogni parola si determina in buona o cattiva, gergale o aulica, bella o brutta a seconda del contesto e della spezzatura del verso. Si ragioni su fortuna, spes, tempestas, fármakon, monstrum. E il mostro è veicolo ora di orrore ora di meraviglia nella mia poetica. È da questa variabilità del livello di lettura, da questi palinsesti identitari, da questo sezionare tutto che discende la forza impetuosa, credo. E dall’ibridismo, dai grilli di Hieronymus Bosch che popolano le mie percezioni, dalle druse di Jaroslav Stuchlik, dalla poesia-baule, da un piede destro e duplex cor in unico petto, etcetera, etcetera.

La tua poesia è ossimorica, sorprendente, crudamente cesellata, simbolicamente abitata, e certe reliquie che tu poni sulla pagina richiedono prepotentemente di riprendere sensuosa vita, tramite decifrazione. Ma è possibile farlo? O ci troviamo invece in una poetica dell’enigma?

Un sapere completo non ci è dato mai. Per quanto ci sforziamo di tenere sotto controllo tutti i dettagli di un quadro, inevitabilmente qualcuno sfuggirà. In poesia i dettagli sono troppi, le variabili impreviste. L’eccessiva chiarezza del quadro abbaglia, l’eccessiva oscurità annoia il fruitore. Il verso è un ricettacolo di legami di burro destinati a sciogliersi, di sinestetiche intuizioni, di estetiche à rebours. La poesia è un progetto di fuga. Fuga dal controllo di ogni dettaglio. Liberare, dunque, i dettagli dall’abbaglio e dalla noia.

Il lettore è, in effetti, quel dettaglio che prende fuoco, mentre il resto dell’opera rimane nell’oscurità. Le parole sono figlie del buio. Talvolta una parola sfugge alla cancellazione e si incendia. O meglio, il lettore stesso è quella parola. Tutti gli altri dettagli tornano nel buio, tornano a progettare una fuga. A ogni lettura un dettaglio è salvo, si illumina. A ogni lettura la poesia è sospesa tra le due soglie: luce ombra, vita morte. La forma, le simmetrie rappresentano le più efficaci vie di fuga.

Il dettaglio certifica la nostra esistenza in vita: è il fiato sul vetro che ci rende visibili; il tassello che ricostruisce, decodificandola, la storia individuale. Come fruitori collezioniamo dettagli, li liberiamo dal testo per creare un altro testo tutto nostro «usando lo sguardo come coltello», direbbe Antonella Anedda.

Tra le mie reliquie, i mostri, la natura che ricreo, tra pesche e orchidee vivo come in una infinità provvisoria e arredata ora in forma di deserto ora in forma di casa. Per questo motivo, non penso che la mia sia una poetica dell’enigma irrisolvibile. La polisemia concede l’accesso a chiavi di lettura personali, a forme aperte ma imprescindibili dal contesto.

In Persica, ad esempio, c’è una moltiplicazione dell’io e nell’incontro tra diversi significati, tra diversi nuclei germinali, cerca un significato nuovo, una cellula in fasce che tenta attraverso accumuli semantici di mettere a repentaglio la morte. Così, “Partenogenesi”, primo testo della raccolta, annuncia una nascita. O più nascite? A chiudere la silloge, “Salmo” che celebra la nullificazione di tutte le identità e il loro disfacimento in schiuma forse per evitare che la storia personale di chi scrive si imponga su quella del lettore, anche a costo di una cancellazione, di una sparizione. Può darsi che il vero sé si manifesti proprio in questa dimensione di solitudine dove non esiste dualità, separazione tra soggetto e oggetto. Ogni parola è, quindi, una chiave polisemica, ogni dettaglio è un indizio legato agli altri ma che vive di luce propria. Ogni parola è una goccia in un mare di indizi.

Yves Bonnefoy scrive in “L’alleanza tra la poesia e la musica”: «[…] nel linguaggio c’è un rumore di pioggia». E anche:

«Questo rumore è l’Uno del mondo che si apre, e noi, che ascoltiamo le gocce d’acqua che si susseguono in modo aleatorio, ecco che ci troviamo sull’orlo dell’abisso, proviamo ciò che potrebbe essere il cadervi dentro, siamo allo stesso tempo il particolare, completamente ripiegato sul proprio istante e sul proprio luogo, e questa unità, ora quasi vissuta».

L’oscillante gioco fra colori assolati, intensamente profumati, e figure ritagliate e come smaltate ci fanno pensare anche alla pittura bizantina oltre che a certi contrasti tipici del mediterraneo, netti e drammatici. E il pensiero appare profondamente annidato nei dettagli visivi e olfattivi. Qual è il tuo rapporto con la filosofia?

La poesia non è solo “la” poesia ma una identità che rinvia a piani di realtà diversi, a un palinsesto identitario. Si tenta di integrare questa identità – i suoi dettagli assolati, profumati, smaltati, netti e drammatici – nel tutto; si tenta un ritorno alla stessa frequenza del mondo. Ma la poesia è una nostografia dell’anima al confine di ogni esperienza di percezione e tornare non è possibile. Non possiamo inserire la poesia nel conosciuto, né il conosciuto nella poesia perché questo tutto è solo ciò che noi conosciamo mentre la poesia tende ad andare oltre, verso ciò che non si conosce, verso l’alterità, l’esteriorità, il fuori. Anche quando questo fuori è dentro di noi, a costo di trovare questa alterità solamente dentro di noi.

Integrare il tutto nella poesia è inutile per quanto ci si sforzi di rendere universale il verso. È, probabilmente, questa impossibilità di far coincidere l’identità con l’intero a darci l’impressione di mancare bataillanamente sempre la poesia.

Il linguaggio della poesia disobbedisce alla poesia stessa e ai nostri goffi tentativi di collegarlo ad altri linguaggi: l’arte, la filosofia, etcetera. La poesia è contiguità. Dobbiamo rassegnarci. L’imprecisione del linguaggio poetico è sostanza del segreto e insieme l’unico canale verso l’immediatezza dell’intuizione. Né immediatezza né mediazione, né chiarezza né oscurità, né vita né morte: la poesia, sospesa tra due soglie, si pone come interruzione, finzione di una piccola morte, il tempo dell’istante. Questa discontinuità è ripetuta dal poeta; e non si potrebbe ripetere l’atto poetico se l’atto poetico non si ponesse come interruzione, un godimento da reiterare kierkegaardianamente.

Blanchot radicalizza Hegel quando sostiene che «l’ingresso nel linguaggio comporta una perdita»: Je dis: une fleur! dico, ma qui non c’è un fiore. Il linguaggio è perdita ma è anche restituzione. Il fiore è l’alterità, l’esteriorità di cui noi incessantemente rievochiamo l’assenza. Il fiore è l’assenza del fiore, la poesia è l’assenza mallarmeiana della poesia: sembra una tesi suicidaria ma è un anelito, invece, verso l’ignoto. La poesia è un’esperienza limite.

Sappiamo che sei una musicista, che sei diplomata al Conservatorio. Come vedi la relazione tra le due sfere: pensare la musica, pensare la parola?

Le poème – cette hésitation prolongée entre le son et le sens.
Paul Valéry

Dovremmo forse restituire voce al segno ch’era servito un attimo prima a incidere – o bloccare – il flusso vivo del pensiero, a eternarlo; a discretizzare, nominalizzare il continuum primigenio. Il silenzio plumbeo delle sirene soggioga l’inconscio appena liberato in poesia, lo riconduce all’ordinamento parassitario della scrittura e a sé stesso, tout court, solo raffreddato. La lettura esofasica corrisponde quasi a un parto sonico in cui la ricezione consente di riconoscere il suono materno, riconciliarsi a esso.

Credo sia il ritorno periodico degli accenti nel flusso parlante a cullare, a generare un’induzione motoria, quasi una musica di la ‘ncunia dove l’incudine è lingua che batte e sbatte sui caratteri plumbei di un foglio bianco (di ddocu veni a musica!). I poeti sono i Velázquez nella fucina di Vulcano, sono i mitici Dattili, les marteaux sans maître, i creatori della musica nata non dal canto degli uccelli ma dal rumore delle lingue, dei martelli che gli operai «battono armoniosamente in cadenza», scrive D’Alembert.

Immagini, suoni e parole servono a dare ordine e ritmo nell’immaginario della coscienza; rimandano al tempo, al suo fluire; allo spazio, la sua presenza, la sua assenza; all’unità, insomma, che l’io tenta di raggiungere tramite l’opera d’arte nel suo ineluttabile destino di disfacimento.

L’io poetico sta in bilico tra Mosè e Aronne, tra la purezza dell’idea inesprimibile e la parola. Quello della poesia è un linguaggio vero e proprio, metalinguaggio, koinèestesa quanto quella musicale; forma significante le cui strutture presentano somiglianza con la nostra vita spirituale che può così essere colta anche intuitivamente. Non è dunque un linguaggio come il parlato ma può essere considerato lingua metaforica, ibrida con un potere superiore a quella parlata.

Il linguaggio non è sufficiente a cogliere i nostri stati emotivi, non è sufficiente a cogliere i movimenti del corpo e della psiche, a mettere a fuoco l’indicibile, la bellezza nella sua caducità. Il dolore provocato da questa caducità produce l’attesa di una nuova realizzazione della bellezza. La musica e la poesia soddisfano naturalmente questa erotica attesa grazie al rinnovarsi kierkegaardiano dell’ascolto-lettura.

Poesia, dunque, come iniziazione al suono per il tramite corporeo della parola. Il mio bilinguismo poesia-musica si esplica nel gesto sonoro che abbraccia la loro unità melogenetica. Reiterando la lettura ad alta voce le parole perdono il senso di sé per diventare suono, smettono di denotare e iniziano a connotare restituendo nuovi significati come se rinascessero dall’ipnosi esofasica, dal piombo dei caratteri tipografici. Il bergsoniano tempo interiore, la durée réelle, anela così a diventare spazio, reificazione di sé: tempo e spazio «simboli non consumati», scrive Susanne Langer, di una partitura poetica.

Per rompere l’incantesimo che ha trasformato lo spirito in carta e scacciare gli spiriti malefici che si irrigidiscono nel senso rinunciando al suono o che si abbandonano al suono rinunciando al senso, invocherei volentieri lo spirito di Berlioz e il suo coro di demoni de “La damnation de Faust” che intona un testo privo di qualsiasi significato e ricco di armonici: «Has! Irimiru Karabrao! Has! / Has! Has! Méphisto!» Un pandemonio, pura poesia.

Intelligibile e intraducibile allo stesso tempo esattamente come la musica, la poesia proprio per questo rivendica spazio all’oralità, per rinominare il mondo, farlo riapparire dopo la sua scomparsa nel silenzio plumbeo tanto distante dalla strada, ricrearlo nella fucina di una nuova fabbrica illuminata.

La tua attività, ricchissima, nel campo letterario ti vede protagonista di un importante premio per i giovani poeti in Sicilia. Puoi farcelo conoscere meglio?

La Balena di ghiaccio nasce dal desiderio di fare germogliare la poesia contemporanea e il fare poetico tra i giovani e di colmare, seppure in parte, le lacune generate dai ristretti tempi scolastici. Il premio, dunque, è rivolto a studenti della scuola secondaria superiore ed è dedicato al poeta e psicoanalista Basilio Reale. Vissuto tra Capo d’Orlando e Milano, Reale è autore di due saggi: “Sirene siciliane. L’anima esiliata in «Lighea» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa” (Sellerio, 1986; poi Moretti & Vitali, 2001) e “Le macchie di Leonardo” (Moretti & Vitali, 1998); e di diverse raccolte in versi: “Forse il mare” (Schwarz, 1956), “Le quotidiane abitudini” (Rebellato, 1959), “La vita attiva” (1963), “I ricambi” (Mondadori, 1968), “L’esistenza amorosa” (Scheiwiller, 1989), “Travasare il miele” (Scheiwiller, 1996), “La balena di ghiaccio” (Aragno, 2000).

Giunto alla terza edizione e sostenuto dall’Assessorato ai Beni Culturali di Capo d’Orlando, il premio deve molto alla collaborazione dello Spazio LOC Laboratorio Orlando Contemporaneo e alla lungimiranza di un artista, Giacomo Miracola. Deve moltissimo anche a un altro artista, Emilio Isgrò che, in qualità di presidente della giuria, testimonia così la storia bellissima di un’amicizia, quella con il nostro Silo.

Il 2017 è un anno importante. Il III Seme, infatti, consente di fare un primo bilancio di questa avventura e spiega l’essenza del progetto: in tre anni, nell’arco di sei mesi di laboratori, attraverso undici archetipi – Aria, Acqua, Terra, Fuoco, Notte, Sirene, Uccelli, Tigre, Caduta, Conchiglia, Porta – ottantuno partecipanti hanno scritto circa quattrocento componimenti in versi. Il Laboratorio di sperimentazione ha accolto gli studenti di tutte le scuole orlandine secondarie di secondo grado e ha permesso l’incontro con tredici poeti: Franca Alaimo, Roberto Deidier, Enrico De Lea, Sofia Demetrula Rosati, Renato Fiorito, Bianca Garavelli, Stefano Guglielmin, Fernando Lena, Dante Maffia, Valerio Magrelli, Daita Martinez, Margherita Rimi, Patrizia Sardisco. Inoltre, più di quaranta poeti hanno inviato le loro poesie edite e inedite in lettura; alcuni autori hanno spedito video, altri lettere e altri ancora hanno dialogato con i balenotteri via etere. Difficile riuscire a contare, invece, i poeti scelti per approfondire lo studio degli archetipi e delle forme dell’immaginazione, l’imagination materiélle di cui parla il filosofo francese Gaston Bachelard.

Le suggestioni interdisciplinari di musica, letteratura e arte visiva servono a immergere gli allievi in un’atmosfera di volta in volta diversa sulla base del seme-archetipo scelto. Costanti i riferimenti alla poesia classica – curati da Domenica Sindoni – punto di partenza del lungo processo di elaborazione di forme, immagini e concetti che si snoda fino ai nostri giorni. Ed è così che il cosmo razionato dalla scienza e dalla ragione viene montato, rimontato e restituito sotto una luce nuova agli studenti che nel corso dei laboratori sono invitati a comporre in versi. La scrittura poetica è qui intesa come operazione di manipolazione, reinvenzione e comprensione originale della realtà. La motivazione principale della Balena sta, infatti, nell’educazione alla bellezza, medium verso l’unità dell’uomo; e le poesie più belle confluiscono, così, in una antologia cartacea dove le sezioni dedicate a ciascun archetipo sono introdotte visivamente da foto e disegni dei ragazzi stessi.

La spinta infantile alla poesia, insita in ciascuno di noi, può trovare terreno fertile in un contesto – quello siciliano e orlandino in particolare – così vocato alla cultura poetica. Basti pensare a figure come Lucio Piccolo, Bartolo Cattafi, Stefano D’Arrigo, Basilio Reale, Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Costa, Jolanda Insana, Emilio Isgrò. Giusto per citare solo alcuni autori appartenenti al messinese.

Quest’anno, il progetto si è arricchito grazie al coraggio di un editore, Giovanni Fassio, che ha accettato di pubblicare un leporello cetaceo in versi (Fiorina edizioni) scritto dal vincitore del III Seme. Per questo motivo, entro le vacanze di Natale, uscirà il libro a soffietto di una diciottenne talentuosa, Federica Corpina. A impreziosire i versi saranno le opere d’arte realizzate dagli studenti della scuola secondaria superiore e scelte dalla giuria della Balena. Un buono auspicio, insomma, questa Balena. O un sogno: quello di gettare semi d’arancia propizi alla nascita di nuove generazioni di lettori di poesia, di fruitori d’arte.

Da qualche mese dirigi la collana Isolario, nata da una tua idea, con Fiorina edizioni. Qual è l’intento della collana? Che cosa ti proponi?

La collana Isolario nasce marsorridendo tra le schiume e le isole bipennate e liminali all’altezza del sole. Un nicchiarello di carta viva ripiegato a fisarmonica da musiche e «allisciato ancora alla grande calmeria di scirocco», direbbe Stefano D’Arrigo. Isolario si mette ora a soffietto ora a repentaglio sulle vie di acqua e vino – aluntino mamertino malvasia – e sulla scia di sirene e dei loro incantamenti. Ma in special modo in balia del tomasiano terzo sortilegio di Lighea: quello della voce.

La casa editrice di Giovanni Fassio crea leporelli d’arte e poesia a Varzi, nell’Oltrepò Pavese. Il leporello, ovvero il libro pieghevole, il libro zig-zag o concertina prende il nome dal servitore del Don Giovanni di Mozart, che portava sempre con sé un catalogo piegato a fisarmonica con annotate le imprese amorose del suo padrone. Un modo antico di fare editoria – si pensi al Muraqqa islamico – vocato al bello, alla cura estrema dei dettagli, al ritorno all’uno di immagini-parole-carta.

Questa collana è una iniziativa editoriale che si propone di selezionare la poesia contemporanea con tutti i rischi che comporta una selezione. Ora potrei sciorinare criteri di serietà e promesse di vario ordine, ma preferisco che a parlare sia il bilancio che dopo un certo periodo di tempo saremo in grado di fare. Alcuni poeti mi aiuteranno in questa selezione; e ci saranno artisti che, ispirati ai versi, trasformeranno i leporelli in gioielli di carta. Il contratto non prevede né spese per gli autori né l’acquisto obbligatorio di leporelli.

Il mio “Etcetera” ha il privilegio di essere il numero uno di questa collana sfrontata e sirenica. “Cercando l’isola” di Salvatore Ritrovato reca il numero due. Per semplificare: un’anima più sperimentale e un’anima più lirica. Insomma, un’isola della poesia.

Siamo ospiti di uno degli splendidi castelli medievali della signoria Malaspina, che avevano stabilita la propria residenza principale, in questo territorio, tra Oramala e Varzi, per poi estenderla anche oltre, ma erano provenienti dalla Lunigiana, in particolare da Luni, da Mulazzano, da Fosdinovo e da Fivizzano. Proprio in Lunigiana arrivò nel 1306 Dante Alighieri, umiliato da un processo sommario e quindi esiliato per volere di Papa Bonifacio ottavo.

Dante aveva conosciuto alcuni esponenti della famiglia Malaspina nel contesto delle dispute tra Guelfi e Ghibellini, e la sua competenza diplomatica, oltre alla sua fama legata al mondo dell’invenzione poetico-letteraria, risultò idonea a trattare per conto dei Malaspina la pace del 1306 con il Vescovo di Luni, avente come oggetto la spartizione della controversa eredità degli Obertenghi. L’esito favorevole di questa trattativa rinsaldò i rapporti tra Dante e alcuni esponenti della famiglia, in particolare Franceschino, Moroello e Corrado Malaspina, che poi ritroviamo animare le vicende cavalleresche ma anche poetiche e musicali legate al castello di Oramala, e che come sappiamo sono richiamati da Dante Alighieri in alcuni passi della Commedia: Corrado, in particolare , nell’ottavo canto del Purgatorio, che così recita:

Se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.
Fui chiamato Currado Malaspina;
non sono l’antico, ma da lui discesi,
a’ miei portai l’amor che qui raffina.

Ecco un possibile punto di contatto tra questo scenario e il bellissimo libro di Quirino Principe, Aion, che abbiamo l’onore di presentare oggi. Abituati come siamo ad apprezzare i suoi densi e preziosi contributi saggistici sulla musica colta europea, da Gustav Mahler a Richard Strauss, da Ludwig van Beethoven a Richard Wagner, o le sue cronache musicali ad ampio respiro, talora venate da uno spirito polemico che non risparmia né le istituzioni, né il mondo politico né quello ecclesiastico, e nelle quali assume sovente il ruolo coraggioso di Paladino della Centralità della Musica nell’esperienza estetica e civile della comunità umana, di fatto spesso disattesa, imbatterci in un testo poetico di Quirino Principe potrebbe risultare una sorpresa. Ma non lo è, se ricordiamo gli innumerevoli contributi e impegni di Quirino Principe anche in ambito letterario, filosofico, editoriale, teatrale, germanistico, e in parte anche dantesco, che gli sono tra l’altro valsi premi e riconoscimenti nazionali e internazionali.

Oggi presentiamo un suo recentissimo libro-leporello ‘Aion’, che vede la luce nella preziosa produzione editoriale Fiorina di Giovanni Fassio, originale nel formato e preziosa nella grafica, propria del miglior gusto artigianale italiano. Quirino Principe, in ‘Aion’, quasi reincarna il trobar clus provenzale di Arnaut Daniel, poeta aquitano medievale tenuto in massima considerazione dal suo coevo Dante Alighieri, di cui Quirino vanta, forse unico in Italia, la conoscenza mnemonica dell’intera Commedia . In ‘Aion’ Principe propone una inedita cosmogonia lirica ispirata al concetto del tempo, sostanziata da visioni e immagini di contenuto sostanzialmente apocalittico, e forse anche da una sottesa ispirazione di tipo autobiografico. Il significato di ‘Aion’ è quello di un tempo concluso in modo irreversibile, una sorta di finis terrae rapportata alla più vasta dimensione del Cosmo. Ma è un Universo che ne implica altri in parallelo, e che una formica, o myrmex, può raggiungere e toccare passeggiando su una striscia di carta, fino a confluire nell’immagine simbolica e al contempo reale di una incisione realizzata dal pittore inglese William Hogart nel suo ultimo anni di vita, il 1764, intitolata Finis on the Bathos.

‘Aion’, o eone, inteso quindi come tempo assoluto, qui visto nella sua gelida e silenziosa conclusione, fine, rovina; aion, ancora, in senso neoplatonico, come intermediario tra il mondo della luce e il mondo della tenebra; aion, infine, come unità di misura del tempo geologico, dal criptozoico al fanerozoico, dall’era paleozoica a oggi, quasi un miliardo di anni. Nel vasto e allo stesso tempo sintetico immaginario del suo componimento poetico in cinque parti, Quirino Principe ci segnala tra l’altro la paralisi degli astri, la morte dei cavalli, gli ultimi momenti di Kronos, padre di Zeus. Kronos non si rivolge più a Dio, ma al caos, un’immagine che rende particolarmente calzante il riferimento di questa citazione alla società contemporanea. Poeticamente, quasi cinematograficamente, gli universi paralleli di questa fine del tempo sono illuminati da corpi un tempo detti celesti, la stella bianca di Zubenelgenubi, la stella rossa gigante Antares, l’Anti-Marte di cui alle scoperte biochimiche di questi ultimi giorni, o ancora Angol, Alcor, Alpha-Centauri, Vega, Deneb, Altair.

In questa rappresentazione cosmologica sospesa, algida e grigio-verde, efficacemente resa, nel volume, dagli acquarelli di Loredana Muller, Quirino Principe intreccia in un grande affresco di concezione in parte dantesca, ispirata proprio dal reticolo di citazioni e simbolizzazioni umanistiche e numerologiche proprie della Commedia. In ‘Aion’ si intrecciano civiltà classiche e riferimenti scientifici, oggetti e personaggi, mitologie e visioni contemporanee, come il rogo del Teatro Petruzzelli di Bari, avvenuto nel 1991, non a caso citato nella parte del poema intitolata Bari, o la stigmatizzata incompetenza beethoveniana di Jorge Maria Bergoglio, alias Papa Francesco. In questo grande ma sintetico polittico di citazioni e riferimenti c’è posto per il matematico Georg Cantor e per il Kantor supremo della polifonia e polivocalità eurocolta, Johann Sebastian Bach.

C’è posto per Cielo D’Alcamo come per Friedrich Holderlin e Friedrich Schiller. Quirino Principe, come accennavo, ha strutturato il suo poema in cinque parti, alcune delle quali metricamente organizzate secondo il principio delle sestine proprie del citato poeta provenzale Arnaldo Daniele, Arnaut Daniel, chissà forse ospite a sua volta, all’epoca, del Castello di Oramala. E tra un preludio e un Postludio, riprendendo la forma ternaria del Bar di Hans Sachs, poeta tedesco cinquecentesco omaggiato da Wagner nella celebre opera I maestri cantori di Norinberga, ecco un Bare ove figurano, come accennato, innumerevoli astri, un Bari tra gelo e fuoco, forse memore di un Caronte novecentesco, Ferdinando Pinto, e di un acheronte popolato dalle contese tra palchettisti, enti territoriali e burocrazie statali, un Baro in cui l’autore allude alle mitologie scandinave, o norrene. Recita la fine del Postludio:

O circumdata cingoli! ..uno stagno
Appare a noi l’oceano, e buio è il vuoto
Ti sferza la vertigine:ecco il nastro
di spazio-tempo, la rete in cui cade
il plasma di un’azzurra-gialla Delo.
Itzar che due colori accende e strozza.
Il margine in cui l’orbita si strozza
ha parvenza di nebuloso stagno
dove e-Bootis include Delo
e l’enigma ch’è ancora libro vuoto
Goccia di luce dalla pulsar cade
ogni millisecondo sul suo nastro.
La formica s’inerpica sul nastro.
Dove la carta si storce e si strozza,
passa Uber die linie. Ed ecco, cade
l’asse che affonda e annega nello stagno
del tempo quasi immobile, già vuoto.
Sospeso enigma, senza fine, è Delo.

E tuttavia questa sorta di millenaristico affresco sulla fine del tempo e dell’Universo, scenograficamente punteggiato da immagini residuali di fossili, di bottiglie rotte, di scope spennate e polverizzate, di cumuli di stracci, di pezzi di campana, di torri in rovina, di frammenti di corone, di strumenti senza corde, persino di un abbandonato copione teatrale shakespeariano in qualche modo collegabile, come vedremo dopo, a una delle musiche evocate dal mio libro, questo affresco ulteriormente arricchito da citazioni tedesche, greche e latine, nonchè da riferimenti alla grande cultura del mondo arabo, sembra in conclusione, anziché dissolvere, rovesciarsi nell’augurio e anzi nella certezza di un nuovo inizio, di una nuova era. Laddove, citando Remy Gourmont, Quirino Principe ci ricorda che:

Tout est dit dejà, mais comme personne
m’ecoute pas il faut toujours recommencer

Tutto è stato già detto
Ma poiché nessuno mi ascolta
Bisogna sempre ricominciare.

di Luca Cerchiari

Top heartclosechevron-downbarsshopping-baglockmagnifiercross linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram