Balene di ghiaccio e semi:
sta per aprirsi la quarta edizione del premio di poesia per i giovani La Balena di Ghiaccio o, come viene chiamata con bella metafora, il “IV seme”; si tratta di un’iniziativa complessa e molto, molto interessante: l’ideatrice e animatrice, la poetessa di Capo d’Orlando Maria Grazia Insinga, è partita tre anni fa, mi sembra, da due idee concomitanti: queste lungo la costa nord-orientale della Sicilia sono le terre di Basilio Reale (cui il Premio è intitolato ispirandosi al titolo della raccolta complessiva delle sue poesie pubblicate da Nino Aragno nel 2000), di Vincenzo Consolo, di Lucio Piccolo di Calanovella e del cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di Stefano D’Arrigo, di Bartolo Cattafi, di Emilio Isgrò (il quale, tra l’altro, presiede la giuria del premio e, ricordo, è autore di diversi lavori dedicati al tema e al simbolo del “seme d’arancia”) – e queste sono terre (e mari) che devono continuare a essere fecondi di pensiero e di arte: e Maria Grazia, che è anche insegnante di pianoforte e che crede nel talento dei giovani e dei giovanissimi, da poetessa ha pensato alla metafora dei “semi” che vanno allocati nel terreno, curati e amati perché possano germogliare e fruttificare; è così che, prima di arrivare al concorso vero e proprio, a Capo d’Orlando si svolgono dei seminari-laboratori in cui i ragazzi degli Istituti superiori della città lavorano su testi editi o inediti dei poeti invitati a offrire loro tali testi; ogni seminario ha al suo centro un “archetipo”, cioè una parola-concetto-metafora-immagine intorno alla quale devono ruotare i testi dei poeti invitati a partecipare e, quindi, l’attività laboratoriale dei ragazzi.
Nei mesi primaverili durante i quali si svolgono i laboratori ci sono anche altre iniziative collegate (letture di poesie, un concorso fotografico, incontri), il tutto con il sostegno dell’Assessorato alla Cultura di Capo d’Orlando e dello Spazio Laboratorio Orlando Contemporaneo. Mi scuso per la cosa, ma mi preme tantissimo mettere in evidenza quello che mi appare come il significato anche politico di quest’evento: in una polis qual è quella italiana del Sud depredata di tante giovani menti le quali o cedono alla violenza delle numerose realtà criminali o emigrano o, pur restando, riescono a trovare davvero poco spazio, una polis in cui si perpetua un qual certo fatalismo e una diffusa rassegnazione, nella quale sono sempre meno le figure intellettuali capaci d’esercitare una vigilanza critica, fare appello ai giovani delle scuole superiori, proporre loro di collaborare a laboratori di poesia significa invitarli a compiere un atto eretico e gratuito (grande bestemmia, questa della gratuità, dentro un sistema economico basato esclusivamente sul profitto e sull’imperativo secondo cui qualunque cosa si dica o si faccia debba “servire”, avere uno scopo economico – da qui la sciagurata affermazione secondo la quale con la cultura “non si mangia” e da qui la domanda retorica a che cosa serva la poesia, perpetuando nel contempo lo sprezzante stereotipo del poeta scollegato dalla realtà, morto di fame e con la testa tra le nuvole, inutile a sé e alla sua povera famiglia).
I laboratori di scrittura creativa si propongono, invece, come momenti d’incontro e di riflessione, di creazione e di felice libertà in cui il giovane cittadino vede ampliarsi sempre di più i propri orizzonti di pensiero: ecco, in questi nostri bui anni si stanno proprio ignorando i livelli più alti che può raggiungere la mente umana quando attinge al massimo di gioia e di libertà tramite l’esercizio comunitario delle discipline artistiche – si persuade la gran parte delle persone che ben altrove stia la felicità, ma l’impoverimento psicologico, culturale, umano in atto è fin troppo evidente. Questi ragazzi hanno allora la possibilità, in uno dei cuori paesaggisticamente più splendidi del nostro Sud e contemporaneamente difficile dal punto di vista sociale ed economico, di ripensare sé stessi liberi da condizionamenti e da paure. E le loro menti fertili, creatrici, entusiaste vengono alla luce, rispondono creando. Impensabile la polis senza gli atti creatori delle diverse arti, e infatti venendo meno arte, cultura e istruzione la polis si disgrega, diventa un rancoroso convivere di estranei, inclini all’intolleranza e al razzismo.
Leporelli:
lo scorso anno il Premio è stato vinto da Federica Margherita Corpina, la quale ha avuto la possibilità di pubblicare i suoi testi con la casa editrice Fiorina di Giovanni Fassio: ne è nato un bellissimo “leporello”, vale a dire un volume stampato in digitale su carta fine art e in collaborazione con WestEgg, le cui pagine vengono ripiegate a mano a mo’ di soffietto (simile a quello dal quale Leporello legge l’elenco delle imprese amorose del suo padrone) – ogni volume viene firmato e datato sia dall’editore che dall’autore. In questo caso, oltre che i testi di Federica, nel volumetto sono presenti le opere grafiche di Greta Piazza, Salvatore Emanuele, Michaela Pinto, Gabriele Letizia, Nina Ricciardi, Antonella Maura Tascone, tutti studenti del Liceo Artistico “Lucio Piccolo” selezionati dalla giuria del Premio e che si sono ispirati ai testi di Corpina – chiude l’opera un breve, emozionante scritto di Maria Grazia Insinga che molto bene illustra senso e ragioni del volume.
Ora mi soffermerò brevemente a commentare quest’opera prima di Federica Margherita Corpina intitolata Per fuoco non per tempo. Quello che colpisce nel libro è la maturità espressiva: a diciotto anni è forse (forse) più probabile essere vittime dei luoghi comuni del “poetichese” e delle relative, usurate, immagini e metafore; Federica, invece, lavora sulla lingua, ne comprende subito la centralità e il valore decisivo, ne usa l’incandescenza e la capacità di abbattere i luoghi comuni, d’inventare inaudite virate di senso; oppure è vero anche che, a diciotto anni, si è ancora vicini alla forza sorgiva del linguaggio, per quanto abbia letto e studiato la mente conserva ancora una verginità nei confronti della lingua e del mondo che le consente, con genio da faber e da demiurgo, di aprire la lingua a paesaggi e sensi inediti.
“Questo bianco divora / a volte anonima mi sfido / a inventare una forma”: ecco, questi tre versi d’apertura del libro posseggono una compiutezza e una forza d’enunciato che non lasciano spazio a dubbi: chi scrive così rifiuta estetismi, sentimentalismi, ovvietà – chi scrive così, avendo scelto di tematizzare il sé stessa che diventa donna traverso il prendere coscienza sia del proprio corpo che del rapporto tra questo medesimo corpo e il mondo (tema rischioso, molto battuto e divenuto ormai luogo comune, oggetto di molti rifacimenti “alla Plath”, alla “Sexton”, “alla Pizarnik”), chi scrive così, dicevo, ha già preso le distanze da tali cascami e si è conquistata una propria voce che già appare sicura, estranea a psicologismi e a sentimentalismi. La poesia di Federica Margherita Corpina si struttura per dense immagini e per accostamenti delle stesse che sono accenni e allusioni, per cui tocca al lettore colmare il non detto o il sottinteso.
E allora, al termine di un testo meravigliante per salda costruzione e invenzione metaforica (l’uccellino che impara a volare e per il quale il nido è contemporaneamente luogo da cui allontanarsi e al quale ritornare – ma mi scuso perché quanto ho appena detto non rende affatto ragione della bellezza della composizione la cui forza è nella costruzione linguistica e sintattica, nella fortissima allusività del detto e anche, contemporaneamente, del taciuto) leggiamo: “l’aerodinamica umana / aspira sempre alla magia” ch’è magia dell’essere venuti alla luce del mondo e del conoscere quel mondo, con trepidazioni, incertezze e slanci.
Pelle, ossa, cartilagini (non a caso anche titoli di tre delle cinque sezioni del libro) sono la materia corporea tramite la quale l’io conosce sé e il mondo, ma anche immagini mentali del transitare da parte del corpo verso la maturità, del suo sentirsi attratto o respinto dal mondo – si potrebbe pensare a Paul Celan quando isola un organo del corpo umano (l’occhio, la faringe, il polmone) e ne fa protagonisti assoluti, agenti del e nel testo; sottolineo poi il persuasivo dialogo con le tavole grafiche, delle quali protagonista è sempre il corpo (femminile), carico talvolta di angoscia, talaltra di slancio alla maternità, oppure di erotismo, oppure fluttuante in un sonno che non è allontanamento dalla realtà, ma attingimento di un sovrappiù di realtà e di coscienza.
E il titolo del libro deriva da versi che sanno dire, nel medesimo tempo, l’uguale passione che sono il vivere e lo scrivere, passione figliata dal fuoco e al fuoco destinata (Federica è figlia d’una terra di vulcani, discende dalla sapienza di Empedocle agrigentino, ma anche da un plurimillenario culto dei morti che, sempre, è in rapporto dialettico col culto della vita – cenere/fuoco): “scava lenta la cenere / crematemi torno polvere / per fuoco non per tempo”. È un andirivieni tra sonno e veglia, tra pre-nascita e nascita, tra vita e morte, tra il continente dell’infanzia e quello, nuovissimo, della maturità fisica e psicologica e, trattandosi d’un andirivieni, la lingua è, appunto, mobile e allusiva, sempre tesa e nervosa, com’è giusto che sia nelle fasi di passaggio e di slancio, di apertura e di pudico, ma fermo coraggio, com’è legittimo che sia la scrittura di chi, ogni giorno, ha davanti agli occhi e intorno a sé il “mobile universo di folate”, l’orizzonte marino e le Eolie (isole del vento e dei vulcani, ancora) in lontananza.
La parte oscura della nostra parola «è il nostro serbatoio di realtà, la nostra fonte. Ed essa ci è accessibile perché – la poesia è questo – affiora in ogni parola. Ascoltare una parola e non una frase, è, ancora per un istante, intenderla prima che vi si mostrino le articolazioni del concetto. Una vita si apre».
La riflessione di Yves Bonnefoy ci introduce alla lettura di “Etcetera”, sempiterno leporello animato dai versi polisemici (e polifonici) di Maria Grazia Insinga; quattro successioni (“Il mostro”, “La dea”, “La bestia”, “L’avvelenatrice”) e un “Sigillo” acquerellati con grazia da Alessadra Varbella, per le edizioni “Fiorina”.
Leggendo cogliamo l’invito: trascendere la parola immergendosi nelle profondità di uno spazio dicotomico, immaginario e realissimo, in cui «il possibile non diventa impossibile / l’impossibile invece è già una possibilità». Uno spazio in cui, come scrive Rosa Pierno nella noterella, «l’abbattimento delle cesure tra sacro e profano, bestiale e umano, libera le reliquie e i simboli prima imprigionati nelle classificazioni metafisiche; e in tal modo coralli, cuori, seni, mostri non trovano più posizione nel paesaggio personale».
Un testo coltissimo, che, come “Persica” e il fiammante “Ophrys” con i quali costituisce unità, fa insorgere l’esperienza esistenziale, simbolizzandola insieme alla dimensione della storia collettiva, «la beatitudine supera / la vocazione alla beatitudine / non posso essere più precisa di così / mentre Paul tornava all’oscuro / […] / venivo alla luce a cosa di preciso / non sa dire non c’è fine se non “da finire”/ non c’è inizio non c’è inizio da iniziare». Un testo, “Etcetera”, che, dal titolo all’ultimo verso («e non ho finito»), ci smembra in una dimensione di «sempiterno fararsi».
Esistono luoghi o momenti ideali per scrivere?
«Scrivo dappertutto con un disordine lavico e forsennato. E mi stupisce, alla fine di un percorso in rime, scoprire un ordine inconscio, mentale. Comprendo solamente che questo disordine corrisponde a un superiore ordine, misterioso non intellegibile, un palinsesto musicale. Il momento ideale è quando mi sembra di riuscire meglio a comunicare in versi questo (dis)ordine. E in genere questo momento ideale corrisponde a uno stato di scabra grazia o di ruvida poesia».
Chi “rileggerebbe” e per quali ragioni?
«Rileggerei Bachmann tra le ondine della Boemia anche quando il mare non c’è; e Achmatova tutte le volte che è necessario zittire i potenti. Rileggerei Celan quando non sappiamo più dirci cose oscure; e la Rosselli che ancora cade, cade e non finisce di cadere assieme a noi. E poi Rilke, quando amiamo qualcosa che non c’è, un unicorno o una bestia rara non ancora catalogata dal pensiero; e poi Reale perché abbiamo sempre bisogno di un’isola o Cattafi quando scopriamo che lo scopo dell’isola è cadere in tentazione. E le sirene? Leggerei Busacca, Stecher, Costa. E Insana, Jolanda, insana pure nel nome. Infine, leggerei Bach ogni giorno, tra un silenzio e l’altro e nessun silenzio, quando la poesia viene meno e neanche io mi sento tanto bene».
Si è aperta ieri la mostra dedicata al libro vincitore del concorso “Balena di Ghiaccio”. Nello Spazio LOC di Capo d’Orlando un centinaio di opere di tutte le scuole secondarie di II grado orlandine.
L’isola, l’approdo a un’isola, il sogno di un’isola, ha accompagnato nell’immaginario l’esistenza di molti di noi; per quanto riguarda la mia generazione, dai romanzi della fanciullezza, prima Salgari, poi Stevenson e Swift, questi ultimi riletti in anni universitari, alle isole dell’Odissea, scoperte nelle ore di epica in prima media e poi riesplorate al liceo e attraverso la letteratura del Novecento. C’è stato poi l’universo di un esilarante bestiario con la Corfù di Gerald Durrell (La mia famiglia e altri animali). E, ancora, la poesia, dal romanticismo di Coleridge e Shelley (e «l’isola de’ poeti» di Carducci in Presso l’urna di Percy Bisshe Shelley) fino a Hilde Domin con l’isola di Santo Domingo dalla quale la poetessa trae il nome con il quale battezza la sua seconda nascita, la nascita alla creazione poetica.
Leggere Cercando l’isola di Salvatore Ritrovato, “libretto alla leporello”, arricchito dagli acquerelli di Sighanda, e tornare, con lo stesso entusiasmo degli anni giovanili, a quella ricerca, è una cosa sola, stavolta, forse, con una memoria di viaggi passati che aguzza lo sguardo e rende tanto più apprezzabile la nota personale, l’arguta inventio così come il nuovo pensoso, meditato approdo. Nel tragitto da Ulisse/Nessuno a sé, il viaggio è variegato, eppure ha una sua profonda unità. Cercando l’isola – e ‘alla cerca’ ci si imbatte nelle diversità più affini e nelle familiarità più stranianti – si toccano approdi intermedi, si lambiscono sponde di conoscenza e ri-conoscenza.
Ultime notizie di Ulisse mescola abilmente l’atmosfera animata da un viavai di persone – tutte senza nome, sono «uno», «un altro», poi ancora «uno» e infine «la gente» – e dalla polifonia di elementi naturali e indizi di episodi omerici con la sorpresa tagliente del ricordo, che spiazza e sperde sicurezze: «Una lama bizzarra di ricordi recide l’ugola/ della nostra indifferenza a ogni ritorno/ “Nessuno”, disse uno, e si perse fra la gente.» L’isola del tesoro, esplicito riferimento a Stevenson, ha invece il ritmo irresistibile della strofa ricordata da Mark Twain in Punch, Brothers, Punch (che la mia generazione ricorda come “O fattorino dal ciuffo nero”): «Marinaio, salta a bordo, prendi il timone. / Presto si salpa verso l’isola dove fu nascosto / (né fu mai trovato) il bauletto di Arpagone. / Colà giunto scendi cauto (qualora / te ne sia dimenticato) nella scialuppa: / porta un cuscino per stare comodo. / A mezzogiorno guarda in alto sul posto / vola un colombo travestito da storione; / laggiù potrai assaggiare anche l’arrosto.»
Poco più avanti, chi legge si trova nella terribile bonaccia narrata da Coleridge. The ancient mariner si configura, escluso il penultimo verso, come narrazione al passato, proprio come avveniva nel testo dell’autore di riferimento. Colpiscono qui, tuttavia, le formulazioni sapide e incisive che non solo condensano il racconto del vecchio marinaio, facendo ri-conoscere i tratti salienti, ma riescono perfino ad aggiungere accenti, sfumature, esiti: «Un marinaio dall’occhio lesto / la barba candida scomparve / in un rogo di fischi il giorno dopo. / Sempre più lontana la costa fuma. / Il mio diario di bordo era finito.» Una «barba candida» ritorna nella poesia L’esilio, dedicata a un destinatario la cui esistenza stessa è avvolta nel mistero: il poeta Mehmet Gayuk.
Che il tema dell’esilio fosse una tappa importante di questo viaggio, forse non sorprende, e forse non era peregrino, a questo proposito, il mio richiamo iniziale alla poesia di Hilde Domin. Anche qui, tra i punti cardinali di questo universo della ricerca troviamo il ritorno (che tornerà poi, già nel titolo, in Nostos, poesia a sua volta dedicata allo scrittore greco Vassilis Vassilikos), insieme all’approdo; anche qui una rivelazione spiazzante, senz’altro non consolatoria, è in agguato: «Ha l’occhio luminoso, la barba candida per gli anni / l’ultimo ospite che ha lasciato ogni cosa / soggiogato dal ricordo di un nuovo approdo. / Ma non c’è approdo, gli dicono, solo navigazione.»
Nella navigazione il pericolo è sempre in vista; ne Il pescecane, il pericolo si palesa come a sua volta minacciato, «sbattuto contro gli scogli di Naupatto», e il pensiero va alla storia, alla guerra del Peloponneso. Che cosa è più cieco e furioso, ci si chiede allora, chi inghiotte chi? Ecco che, cercando l’isola, ci si imbatte nell’immaginario shakespeariano, non, tuttavia, come ci si potrebbe aspettare, nell’isola della Tempesta, bensì in Otello, sua eco nelle stanze vuote. Attenzione, però: anche in questo caso, come nelle poesie precedenti, un componimento sembra tendere la mano a quello precedente, attraverso una formula, un indizio, un elemento di congiunzione.
Se in precedenza una «barba candida» era stata il trait d’union, tra Il Pescecane e Otello, sua eco nelle stanze vuote è una tempesta ad assicurare la continuità, prima dipinta nelle sue conseguenze (il pescecane sbattuto contro gli scogli), poi menzionata esplicitamente: «Eccomi alla fine del viaggio. / Senza la bussola ma più vicino / al faro del più nero approdo. / Perché indietreggiare? / Oh tenebre, oh tempesta / per che paura? Dolce e buia / è la verità puntata al petto / come una cometa nello spazio / fra l’aorta e la vena mitrale / mentre io mento ancora / nel ruolo di amante modello.» In Nostos, componimento al quale abbiamo accennato prima, troviamo invece nella bonaccia un ulteriore collegamento con The ancient mariner: «Quel giorno la bonaccia tenne ferme / le bandiere sull’altana e planavano i gabbiani / come ombre lente sulla stiva.»
Dopo la «distesa scabra di dune», la desolazione di una riva che sembra attendere l’emancipazione da un naufrago che vi approdi in Leggendo Shelley, è la terra «di sopra», di «chi vive sopra», dove un vento «strazia ombre e giorni», a spiccare in contrasto con un mondo fantastico delle profondità in Solaris. Sarà, forse, quello stesso vento a cadere beffardo su un’isola raggiunta, «su quest’isola», come si sottolinea a più riprese nel componimento conclusivo, Perduta chi sa dove. Tutta l’esistenza, e il suo volgere altrove, l’anelito e il dolore, scorrono qui e confluiscono l’uno nell’altro. Chi legge, si ferma qui con commozione.
Di un’assenza si parla – la dedica è A Anna / (au fond d’un petit café en fumé, mal éclairé) – e di un’attesa, così che è in questo finale che, per la prima volta in questa raccolta, all’imperfetto si intrecciano i tempi del futuro semplice e del futuro anteriore: «Fumare una sigaretta sarà una cosa vecchia: / la tua ‘ultima’ volerà via come una foglia secca. / Su quest’isola, qualcuno un giorno troverà macerie, / gli stagni asciutti, un pozzo che scende / nel cuore stanco di una civiltà perdente. / Su quest’isola nessuno parla più la lingua di un tempo, / anzi nessuno parla più, resiste qualche ombra / appesa a un chiodo come ricordo di un altro mondo. / Su quest’isola ti avrò aspettato a lungo.»
Chi legge prende congedo da questo libro con il desiderio e l’impegno a tornare, con ri-conoscenza per il suo equilibrio perfetto, per il confluire e fondersi di pathos e forma cristallina. Salvatore Ritrovato, Cercando l’isola, Fiorina Edizioni 2017.
Sabato 23 dicembre alle ore 18.00 presso lo Spazio LOC Laboratorio Orlando Contemporaneo in Via del Fanciullo 2 a Capo d’Orlando, la Balena di ghiaccio – il premio di poesia per i giovani dedicato al poeta e psicoanalista orlandino Basilio Reale e sostenuto finanziariamente dall’Assessorato alla Cultura di Capo d’Orlando e dal LOC – terrà a battesimo la giovane poesia siciliana e cinque giovanissimi artisti in occasione della presentazione di un libro che rende orgogliosa la comunità orlandina e l’isola tutta:
Per fuoco non per tempo, di Federica Corpina
Appena diciottenne, Federica vince il III Seme 2017 della Balena – premio ormai consolidato nel panorama nazionale – e firma il terzo numero della collana di poesia contemporanea inedita, Isolario, diretta da Maria Grazia Insinga (ideatrice e curatrice della Balena di ghiaccio) grazie all’entusiasmo dell’editore Giovanni Fassio.
Non si tratta di un libro ordinario, ma di un leporello, un pregiato volumetto imbastito artigianalmente a soffietto, stampato in numero limitato di copie firmate a matita dall’Editore. Un modo antico di fare editoria: si pensi al Muraqqa islamico, versato al bello, alla cura estrema dei dettagli, alla simbiosi di parole immagini carta; e si pensi a Leporello, il servitore nel Don Giovanni di Mozart che portava sempre con sé il catalogo piegato a fisarmonica delle imprese amorose del suo padrone.
Il leporello della Corpina è composto da cinque sezioni – Esilità, Pelle, Cartilagine, Ossa, Cenere – attraverso le quali il corpo adolescenziale si trasforma e si scompone. Domina il colore bianco, un bianco che divora; come un’acrobata, la poetessa raggiunge una via d’uscita e nel silenzio del sigillo finale nasconde al lettore la sua verità. Ad accompagnare visivamente i versi inediti di Federica Corpina sono le opere realizzate dagli studenti del Liceo Artistico “Lucio Piccolo” nell’ambito di un concorso al quale hanno partecipato tutte le scuole secondarie di II grado di Capo d’Orlando.
Le illustrazioni di Salvatore Emanuele, Gabriele Letizia, Greta Piazza, Michaela Pinto, Nina Ricciardi e Antonella Maura Tascone (docenti: Salvatore Barca, Sabrina Busà, Anna Paola Cataldo, Vittorio Perna) – ispirate ai temi della scrittura di Federica – sono state selezionate su un totale di quasi cento disegni dalla giuria della Balena costituita da Marco Bazzini, Giacomo Miracola, Matteo Reale, Domenica Sindoni, Giovanni Spinicchia, Maria Grazia Insinga e presieduta da Emilio Isgrò.
Questo libro – interamente finanziato dall’Editore – è, dunque, un germoglio che sboccia dall’unione di una casa editrice visionaria, Fiorina, con un premio letterario vocato a gettare semi d’arancia propizi alla nascita di nuove generazioni di lettori, di artisti, di poeti.
Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo un assaggio della poesia di Federica:
larga pupilla quasi
tentativo trascendentale
di cogliere la luce dall’uscita
o è ricordo di quando entrammo
violando il buio per pauraoppure non fa per noi
questo bianco divora
a volte anonima mi sfido
a inventare una forma
e mai conforme al puro
e pure creste ribelli
[…]
Abbattuti i confini tra umano e divino, la favola incombe occupando l'intero spazio e i reliquiari ora divengono ceste di simboli, i quali, avendo perso la loro collocazione funzionale, restano a galleggiare nell’aria liberati dalla forza di gravità dei diversi contesti. Ex-voto, rami di corallo, cuori, seni, calzari, in bilico tra i regni della religione e della mitologia, se sembrano roteare nell'aria senza ancoraggio sono anche contemporaneamente disponibili a un nuovo uso, ad assumere, pertanto, una nuova significazione.
La macchina che abbatte tutte le separazioni esistenti tra i regni - ove alcune delle cesure precedenti erano il frutto di un'attività separatrice derivata dalla necessità della classificazione scientifica aristotelica o di contesti che per la loro complessità semantica e per le loro caratteristiche ibride, mal sopportavano la presenza delle categorie, - è al centro del nuovo libro che Maria Grazia Insinga ci consegna sotto forma di pregevole leporello nelle edizioni Fiorina.
In ogni caso, sia le separazioni, sia l’indistinzione fra le classi sono il frutto dell'invenzione umana e per questo si può parlare di un'ombra estetica che ricolora tale scenario, donandogli una maggiore profondità La Insinga restituisce a questi separati regni una contiguità che ripristina la loro interezza, costituendo un unico serbatoio da cui scegliere per ridonare una seconda vita ai materiali e conferendo loro, in tal modo, una duttilità che consenta al suo gesto poetico di tracciare un nuovo disegno, più adeguato a rappresentare la visione che la poetessa siciliana ha della realtà.
Tuttavia, è proprio grazie alla polisemia straniante che i simboli assumono con questo atto ricostituente - e l’imprecisione è parte integrante del riconoscimento della complessità irriducibile dell’oggetto - a far loro acquisire il potere di trasformare le contraddizioni in una logica dell’assurdo. Non siamo di fronte alla costituzione di un nuovo sistema, poiché vi è la volontà di non espungere i significati oppositivi, di conservarli, cioè, come necessari, come risultato definitivo. Sfilano dinanzi agli occhi il mostro e la bella, la fine che non si conclude mai e l'inizio che non può aver luogo.
La divinità è declassata dalla sua incapacità di non poter "toccare terra", la bestia è un'invenzione più vicina all’umano di qualunque altra cosa, che sia mostro mitologico o ridotto al rango di vittima nella favola popolare, mentre il personaggio dell'avvelenatrice sembra essere colei che se avvelena con il suo pensiero separatore, è anche colei che consente la circolazione tra i regni finalmente comunicanti.
È la madre che genera, ma è anche la terra percorsa, è mostruosa a sua volta, oltre che dispensatrice di beni. In un formidabile nodo che stringe materiali distantissimi, Maria Grazia Insinga ci offre una possibilità che a ogni passo si svolge in una negazione per aprirsi alla variazione. È per questo che abbiamo parlato di arte e, naturalmente, un’arte che mette in comunicazione varie forme espressive!
Rosa Pierno
ora che lei è relegata
a divinità ora che lei è
legata da divinità ora
che lei è relegata ail sole non è degno di splendere
sul suo capo ma l’altra dall’altro
capo non ha eppure splende
e dovrà sette anni digiunare
in totale oscurità fustigata
da guardiani a difesa di protocollo
ma non ricordo più il perchéil sole sul suo capo ma l’altra
splende e splende sette annise un cane entra nella casa
il cane è uccisol’altra è incoronata senza testa e corona
da quel momento cammina sulla tigre
e il piatto d’oro e per i resti e la vita
non permetterò ai suoi piedi di toccare
nuda terra: per calzari pelle di cinghialeassi di legno tappeto di foglie i miei piedi
a scaricare al suolo tutta quella divinità
carica di elettrico isolamento non è
cosa di isole detonare è togliere tono
a suono a suolo e rimangono allora
tabù reliquie micce feticci e fuochi
L'editore Fiorina rinnova la tradizione dei libri come oggetti d'arte
Per sciorinare a donna Elvira il catalogo delle conquiste del marito, il servo di Don Giovanni, ove memoria non lo soccorreva, faceva affidamento sulla lista delle amorosette trascritte sopra un foglio piegato a fisarmonica che recava sempre con sé. Un manufatto le cui origini risalgono alIX secolo e che, dopo l'opera di Mozart, venne chiamato Leporello, in onore dell'impudente servo. Ne rispolvera ora i fasti tipografici la casa editrice Fiorina, che rinnova la tradizione dei libri come oggetti d'arte stampando una serie di mirabili Leporelli: 24 paginette custodite in astuccio cartonato che, una volta dispiegate, misurano tre metri e mezzo, e in cui scrittura e immagini si alternano a mutuo commento.
Leporello è nome di aerea consistenza, che richiama alla mente preziosismi letterari e artistici e malìe tipografiche per bibliofili. E invero il catalogo si fregia di contributi d'autore d'alto livello. C'è, per esempio, Gatsby a West Egg, concettosa divagazione dell'americanista Francesco Meli intorno al grande Gatsby, mentre lo zoologo Silvio Spanò con La beccaccia offre al lettore un curioso ibrido letterario, tra il manuale di zoologia fantastica e quello di ornitologia. Rilevante poi è la pubblicazione di Concologia per l'occhio e per la mente, in cui il poeta Marcello Frixione da sfogo di virtuosismo ecfrastico con le sue quartine apposte a commento delle figure di chiocciole scansionate e volte al negativo dall'artista Mauro Panichella, in un raro esempio di compiuto connubio fra immagine e parola.
In Testuale critica n.60/2017 Gio Ferri legge “Etcetera” di Maria Grazia Insinga (Fiorina Edizioni, Varzi, 2017)
Milano, 16 giugno 2017
Gentilissima Insinga,
la ringrazio innanzitutto di questo “Etcetera”: un vero e proprio gioiellino editoriale. Da tenere sul tavolo come un oggetto splendidamente decorativo. Bellissimi, e … metafisici, gli acquarelli di Alessandra Varbella. Ma quelli che più contano, ovviamente, sono i testi. Appropriato e indicativo è l’esergo che riporta la poesia di Rainer Maria Rilke su quell’animale favoloso, surreale appunto, che è l’Unicorno. Questa citazione fra l’altro scatena una dialettica poetica paradossale e passionale fra la bestia, il mostro, il terrore e l’amore:
la beatitudine supera
la vocazione alla beatitudine...mentre Paul tornava all’oscuro
col membro eretto per l’ultima volta...
La fascinazione del membro maschile, della bestia meravigliosa, e la sua amorevole fantasmatica minaccia:
... le giumente in minuscoli pruni scomposte
vi scendevano e di così sensuale
non avevo mai visto
Rammento l’arte ‘scandalosa’ dei tempi di Oscar Wilde, nell’ipocrisia vittoriana (posso dire, anche attualmente, per quanto attiene le pruderie di gran parte della poesia pseudoromantica che svilisce il senso stesso delle nascoste passioni?). Quando non si dà poesia senza passioni. Tensioni sessuali potenti e per l’appunto anche paurose. E ricordiamo la sensualissima Salomé che bacia la terribile testa di Giovanni:
un intero bosco di bestemmie silvestri …
...
lei è sana e io
maledetta!
...
l’odio tutto e l’amo di banale amore amaro
Se è vero che la poesia si basa sulla selezione e combinazione delle parole in una sequenza dominata dal principio di equivalenza (lo stretto rapporto semantico e fonetico dei segni), in “Etcetera” tale rapporto non è tanto, o solo, un principio di equivalenza secondo questa ipotesi classica, quanto una realtà scritturale il cui rapporto, al di là del ritmo (qui assolutamente diseguale) e delle figure classiche, si pone fra esclamazione e tormento sensuale. C’è tutta una insistita serie di figure traslate, ambiguità, polisemie da transcodificare. Il lettore per l’appunto è costantemente chiamato a ricollegare i vuoti lasciati dagli enjambement. Dovendo prendere atto tuttavia che la parola
... non sa dire non c’è fine se non da finire
non c’è inizio non c’è inizio da iniziare
È persin banale pensare a un’aura freudiana: va messo l’accento, piuttosto, non sulle sequenze dell’inconscio, bensì della dichiarata corporeità. Il dio è il corpo:
dentro il nicchio di ulivo preservate
il sacro corpo da sacrilegi
La caratteristica costante, dal punto di vista formale, è l’asintattismo: i salti, i baratri dell’espressione spingono all’idea, anche figurativa, di una corporeità scritturalmente sovente distorta. Come, si possono citare in proposto, solo per fare un esempio utile a capirci, le fantasmatiche contorsioni surrealistiche delle ‘bambole fanciulle’ di Hans Bellmer. Ma d’altro canto, per diversa via, sono frastagliare e diseguali le stesse striature nervose delle conchiglie di Alessandra Varbella.
È il corpo bramato e ‘massacrato’ del Giovanni di Salomé. Acutamente nota Rosa Pierno: “La scena è non più umana né divina, il divino vi appare come ciò che è ridimensionato rispetto all’umano, ma anche l’umano, senza l’aiuto dei precedenti recinti, smarrisce la possibilità di finire e la capacità di pensare l’inizio”. Devo capire che i “precedenti recinti” altro non sono che le norme innaturali imposte dalla stanca tradizione alla scrittura?
«Ancor gustate qualche leccornia / di quest’isola, quale non vi lascia / le cose vere scerner dalle false»
(William Shakespeare, La Tempesta)
«Il mare è qualcosa d’indeterminato, illimitato, infinito, e l’uomo, sentendosi in mezzo a questo infinito, è incoraggiato a varcarne il limite»
(G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia)
Riprendendo il filo della prima raccolta, Quanta vita (1997), l’ultima silloge di versi di Salvatore Ritrovato Cercando l’isola, Fiorina, Varzi 2017 torna a proiettare il senso dell’opera su un orizzonte esistenziale di immagini e situazioni legate alla navigazione. L’ombra di Walter Benjamin, benché il suo nome risulti assente dalla grande messe di citazioni che affollano i versi, si staglia forse piu di ogni altra sullo sfondo delle pagine, come una tela su cui si accingono a prender forma i più svariati moti d’animo. L’adesione a tale orizzonte sembra essere, invero, sia filosofica che estetica.
Filosofica giacché l’idea di realtà che i componimenti lasciano intravedere, rassomiglia per molti aspetti a quella di un arido deserto o di un cumulo di rovine. Estetica in quanto, come Benjamin riteneva, il presente appare talmente frammentato e parcellizzato che per restituirne l’unità, ovvero per attingere una qualche forma di universale, sembra non si possa far altro che ricorrere all’allegoria. Ma vi è un terzo elemento che ci riconduce ancora entro il quadro prospettico del filosofo tedesco, e che costituisce, in qualche modo, una delle chiavi con cui prepararsi ad aprire il forziere di questi versi: l’ostinato rifiuto ad accettare deserto e rovina come traguardi ultimi dell’umanità, la risoluta perseveranza con cui viene ricercata spasmodicamente quella che per l’appunto Benjamin designava come una via d’uscita dalle macerie.
Qui si introduce allora il motivo del nostos, fulcro tematico del volumetto. Questo termine, che presta il nome ad uno dei componimenti («ma la nave andava come un albero / che stende i suoi rami al vento», Nostos), indica, sappiamo bene, nostalgia, ma significa anche, come noto, viaggio di ritorno, sicché se da un lato appare legato alla mancanza e alla pena, dall’altro resta inseparabile da quella massa di sentimenti che il viaggio (ancorché di ritorno – basti qui tener presente soltanto l’antecedente dell’Odissea) reca con sé: desiderio, ricerca, tentazione di conoscenza. Il tema della nostalgia dunque, assiepato tra i versi di queste poesie («su quest'isola nessuno parla più la lingua di un tempo, / anzi nessuno parla più, resiste qualche ombra / appesa a un chiodo come ricordo di un altro mondo», Perduta chi sa dove;
«Una lama bizzarra di ricordi recide l’ugola / della nostra indifferenza a ogni ritorno». Ultime notizie di Ulisse), non va separato dal tema del viaggio in direzione di una nuova terra che riconferisca un più stabile equilibrio tanto agli spasimi dell’anima quanto a quelli del mondo («un’isola, un approdo, un porto di mare...», Incipit). Un viaggio verso una nuova condizione storica ed esistenziale, verso un’isola, dunque, che non sia foggiata di «solo silenzio», ovvero di macerie, stagni asciutti e cuor[i] stanc[hi], qual è quella che sembra profilarsi sull’orizzonte di questa galassia occidentale, vale a dire di questa nostra «civiltà perdente» (Perduta chi sa dove).
Strumento privilegiato di questo viaggio sembra essere la scrittura e per certi versi la poesia stessa («Che cosa stringe allo stesso cielo il mio respiro e questa carta? / Sento in ogni verso un lungo interminabile naufragio», Incipit). Da questo punto di vista, il rapporto con il verso scritto che viene evocato, sembra collocarsi entro quel solco attitudinale che in Italia, più di ogni altri, Amelia Rosselli aveva contribuito a tracciare. Non è un caso ch’essa amava definirsi poeta della ricerca. E non è un caso, pur tenendo conto della profonda distanza che intercorre tra le loro scritture, il largo ricorso agli enjambement dei due poeti, quasi a voler ridurre al minimo i momenti degli approdi per ingenerare, nel lettore, il senso di una incessante navigazione.
Ad ostacolare gli ancoraggi (ma si badi bene non tanto per un voluttuoso piacere di viaggiare quanto per una bramosia di attracchi più significativi), oltre all’enjambement interviene il frequente ricorso all’ironia e alla parodia, sintomo di quella «civiltà perdente» precedentemente menzionata (come, d’altro canto, erano il sintomo delle contraddizioni del mondo ellenico il teatro di Aristofane e della dissoluzione della cavalleria l’opera di Cervantes). Apre significativamente la raccolta Ulisse, iniziatore letterario di tutti i viaggi, con il suo corollario di figure tratte dall’Odissea: la maga, la sirena, Nessuno. Ma quel Nessuno diventa, nel suo significato letterale, parodia del significato letterario e chiude quel senso d’angoscia tutto moderno con cui si apre il componimento: «Al porto s’imboscano ostinatamente / immoti e radi gli umori della luna».
L’Ulisse stesso di cui si parla, quindi, nonostante il circondario figurale sopra menzionato, sembra rassomigliare, per molti aspetti, più all’Ulisse di Joyce che a quello di Omero. In questa mescolanza di scenari e personaggi si cela ancora una volta l’intento di ostracizzare i facili approdi, rifiutare le isole limitrofe e le certezze vane. Ma quali sono queste certezze? Sono, ci suggeriscono i versi, le certezze delle superfici, i detriti delle illusioni, costrette a lungo andare ad essere travolte dal vento della realtà:
Certi uomini trascorrono sopra la loro vita [...]
Prendi questo vento, faccio a chi vive sopra.
Violento spazza ogni rumore dalla terra
rovista, strazia ombre e giorni,
laggiù le porte cigolano sui cardini di rame.
E dove vanno? Gli ospiti che incontri
ti diranno che hai la febbre
non esiste altrove, sopra, che la mente.(Solaris)
Il vento, pertanto, veicolo della trasformazione, uccide chi sta sopra. Chi sopravvive tra la scorza dell’esistenza e non trova il coraggio di immergere anima e corpo nella polpa della vita. Costoro, appaiono al poeta, ancor più che sotto la veste di sonnambuli, sotto quella di cadaveri, sicché le loro voci, il loro reiterato invito ad abbandonare i sottosuoli e le correnti sotterranee per vivacchiare tra le schiume esteriori, suonano all’io poetante come voci che provengono direttamente dalle bocche degl’Inferi: «“Lascia perdere il sentimento; / si sta bene... Senti che silenzio!” / fece una voce nella tenebra viva / che sembrava uscire dall’inferno» (Nostos). Ma questa tirannia della superficie, più che riguardare alcune schiere di individui, sembra coinvolgere lo spirito di un’intera epoca.
Riecheggiano invero in questi ultimi versi, sia qui concesso lo strano, ma a ben vedere calzante parallelismo, le parole che Bukowski, nel racconto Rosso come un giaggiolo, pronuncia al dottore in una delle sue Storie di ordinaria follia: «L’uomo è vittima di un ambiente che non tien conto della sua anima». È questo intero ambiente che, ci suggeriscono le parole e le perifrasi di Cercando l’isola, verrà ricacciato nei suoi fondachi dal vento della storia, ovvero della trasformazione. Come e quando questo avverrà resta un mistero: quel mistero che, dal principio alla fine, aleggia fra i versi di questa raccolta e che l’insieme di allegorie, diminutio e parodie concorrono ad alimentare nel petto non meno che nella mens del lettore.
L’Incontro di Volpedo, 30 settembre 2017. Questo il tema del Festival di Volpedo, che continua l’evoluzione della storica Biennale di poesia di Alessandria. In un contesto di straordinaria bellezza paesaggistica e culturale (il paese è da tempo inserito nella lista dei Borghi d’Italia), ma soprattutto di amicale collaborazione e fertile scambio di idee, poeti e critici, per una volta senza sterili divisioni di compiti e scopi, porteranno il proprio costruttivo contributo.
Se ai critici è richiesto di affrontare il tema con gli strumenti della critica letteraria intesa nel senso più ampio, una nutrita scelta di poeti rappresentativi porteranno esempi concreti di come la poesia possa ancora parlare del mondo e dell’uomo con la forza espressiva della forma artistica che da sempre, più di ogni altra, connota la cultura del nostro Paese.
Sabato 30 settembre a Volpedo (AL), all’interno della Biennale Di Arte, Cultura E Spettacolo dedicata al grande Giuseppe Pellizza da Volpedo la Biennale Di Poesia Di Alessandria organizza un grande momento di poesia "Dove va la poesia?", sono chiamati a confrontarsi, con testi e riflessioni, poeti e critici.
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