[dropcap style=" "]M[/dropcap]aria Grazia Insinga, dopo la laurea in Lettere moderne, il diploma in Conservatorio e in Accademia si dedica all’attività concertistica e all’insegnamento nelle scuole secondarie. Nell’ambito degli studi musicologici censisce, trascrive e analizza i manoscritti musicali inediti del poeta Lucio Piccolo. Suona in un duo pianistico ed è docente di Pianoforte presso l’Istituto “G. Verga” di Acquedolci (Messina). Nel 2014 la raccolta “La porta meta fisica” è segnalata al Premio Montano. Sempre nello stesso anno, con il sostegno dell’Assessorato ai Beni Culturali di Capo d’Orlando, idea il Premio di poesia per i giovani “Basilio Reale” La Balena di ghiaccio giunto alla terza edizione e presieduto da Emilio Isgrò. Alcuni testi si trovano in riviste e antologie: “Il rumore delle parole” (Edilet, 2014) a cura di Giorgio Linguaglossa; “Blanc de ta nuque” Vol. II (Le voci della luna, 2016) a cura di Stefano Guglielmin; “Umana, troppo umana” (Aragno, 2016) a cura di Fabrizio Cavallaro e Alessandro Fo; “Punto. Almanacco di poesia” (puntoacapo, 2017) a cura di Mauro Ferrari; “Osiris Poetry” n. 84 (Andrea and Robert Moorhead, 2017). Nel 2015 vince il concorso Opera prima, iniziativa editoriale diretta da Flavio Ermini e a cura di Poesia2punto0, con la silloge “Persica” (Anterem/Cierre grafica). Nel 2016 entra a far parte del consiglio editoriale di Opera prima. Nel 2016 la raccolta “Ophrys” è finalista alla XXX edizione del Premio Lorenzo Montano. Nel 2017 pubblica il leporello in versi “Etcetera” (Fiorina edizioni) e la raccolta “Ophrys” (Anterem). Cura la collana di poesia Isolario per Fiorina.
Il registro della tua poesia si svolge sapientemente tra aulico livello e gergo popolare, disegnando una sorta di recinto che accoglie sacro e profano. La favola, l’oblio, con il loro portato ricorsivo, delineano una scrittura potente. Parlaci di questa che noi leggiamo come forza impetuosa.
Spero si tratti di carbone dal Don o nafta di Bakù. «Dateci nuove forme», dice Majakovskij.
“Etcetera” (Fiorina edizioni, 2017) è un dialogo privatissimo con l’altra, un dialogo in cui la bestia degenera in uomo e l’uomo è relegato a divinità. In questo recinto l’umanità nella direzione dell’umanità non pare faccia passi avanti. Solleviamo l’umano a divino fino a perdere il senso del reale: questo divino nasce da una natura evidentemente snaturata. E restiamo privi di coordinate in un mondo, per fortuna, da rifare.
Sin dalla dedica – A Nike e a Nike – “Ophrys” (Anterem, 2017) predilige figure umane divinizzate per via di roghi e decapitazioni; ed elegge pure Apollo, il cui torso rilkiano, nella moncanza, conserva l’armonia dell’unità, del tutto.
In fondo, l’ossessione è sempre quella della forma o del deforme: il morso della “Persica” (Anterem/Cierre grafica, 2015), in quella moncanza, restituisce il piacere del tempo primo dove nulla è discretizzato. Forse, la forza impetuosa viene da questo nulla, da ciò che manca, dalle soglie dell’impronunciabile e da nuove forme inevitabilmente venute fuori da una versificazione deforme. Forse, l’impeto muove da questo corpo sezionato – in “Ophrys” e in “Etcetera” – che è anche il corpo della scrittura, se la parola è carne, la poesia corpo, un piede destro e duplex cor in unico petto.
[…]
il resto mancante
mancanti la testa e i piedi
e tutto il resto mancante
che testa e piedi divide
cetera desunt… cetera desunt…
[…]
I versi sono di Bartolo Cattafi; la musica di Lera Auerbach: “Quartetto per archi n.3”, VIII Movimento.
Il dialogo è privatissimo, dicevo, e inanella di tanto in tanto termini dialettali e colloquiali; ma il registro, evidentemente, risulta aulico tessendo le preziose rotte dei corallai tra acqua e terra e aria nelle favolose carte di Idrisi o nei bestiari quasi medievali popolati da unicorni, mostri, dee e versiere. Un linguista userebbe la locuzione latina vox media: ogni parola si determina in buona o cattiva, gergale o aulica, bella o brutta a seconda del contesto e della spezzatura del verso. Si ragioni su fortuna, spes, tempestas, fármakon, monstrum. E il mostro è veicolo ora di orrore ora di meraviglia nella mia poetica. È da questa variabilità del livello di lettura, da questi palinsesti identitari, da questo sezionare tutto che discende la forza impetuosa, credo. E dall’ibridismo, dai grilli di Hieronymus Bosch che popolano le mie percezioni, dalle druse di Jaroslav Stuchlik, dalla poesia-baule, da un piede destro e duplex cor in unico petto, etcetera, etcetera.
La tua poesia è ossimorica, sorprendente, crudamente cesellata, simbolicamente abitata, e certe reliquie che tu poni sulla pagina richiedono prepotentemente di riprendere sensuosa vita, tramite decifrazione. Ma è possibile farlo? O ci troviamo invece in una poetica dell’enigma?
Un sapere completo non ci è dato mai. Per quanto ci sforziamo di tenere sotto controllo tutti i dettagli di un quadro, inevitabilmente qualcuno sfuggirà. In poesia i dettagli sono troppi, le variabili impreviste. L’eccessiva chiarezza del quadro abbaglia, l’eccessiva oscurità annoia il fruitore. Il verso è un ricettacolo di legami di burro destinati a sciogliersi, di sinestetiche intuizioni, di estetiche à rebours. La poesia è un progetto di fuga. Fuga dal controllo di ogni dettaglio. Liberare, dunque, i dettagli dall’abbaglio e dalla noia.
Il lettore è, in effetti, quel dettaglio che prende fuoco, mentre il resto dell’opera rimane nell’oscurità. Le parole sono figlie del buio. Talvolta una parola sfugge alla cancellazione e si incendia. O meglio, il lettore stesso è quella parola. Tutti gli altri dettagli tornano nel buio, tornano a progettare una fuga. A ogni lettura un dettaglio è salvo, si illumina. A ogni lettura la poesia è sospesa tra le due soglie: luce ombra, vita morte. La forma, le simmetrie rappresentano le più efficaci vie di fuga.
Il dettaglio certifica la nostra esistenza in vita: è il fiato sul vetro che ci rende visibili; il tassello che ricostruisce, decodificandola, la storia individuale. Come fruitori collezioniamo dettagli, li liberiamo dal testo per creare un altro testo tutto nostro «usando lo sguardo come coltello», direbbe Antonella Anedda.
Tra le mie reliquie, i mostri, la natura che ricreo, tra pesche e orchidee vivo come in una infinità provvisoria e arredata ora in forma di deserto ora in forma di casa. Per questo motivo, non penso che la mia sia una poetica dell’enigma irrisolvibile. La polisemia concede l’accesso a chiavi di lettura personali, a forme aperte ma imprescindibili dal contesto.
In Persica, ad esempio, c’è una moltiplicazione dell’io e nell’incontro tra diversi significati, tra diversi nuclei germinali, cerca un significato nuovo, una cellula in fasce che tenta attraverso accumuli semantici di mettere a repentaglio la morte. Così, “Partenogenesi”, primo testo della raccolta, annuncia una nascita. O più nascite? A chiudere la silloge, “Salmo” che celebra la nullificazione di tutte le identità e il loro disfacimento in schiuma forse per evitare che la storia personale di chi scrive si imponga su quella del lettore, anche a costo di una cancellazione, di una sparizione. Può darsi che il vero sé si manifesti proprio in questa dimensione di solitudine dove non esiste dualità, separazione tra soggetto e oggetto. Ogni parola è, quindi, una chiave polisemica, ogni dettaglio è un indizio legato agli altri ma che vive di luce propria. Ogni parola è una goccia in un mare di indizi.
Yves Bonnefoy scrive in “L’alleanza tra la poesia e la musica”: «[…] nel linguaggio c’è un rumore di pioggia». E anche:
«Questo rumore è l’Uno del mondo che si apre, e noi, che ascoltiamo le gocce d’acqua che si susseguono in modo aleatorio, ecco che ci troviamo sull’orlo dell’abisso, proviamo ciò che potrebbe essere il cadervi dentro, siamo allo stesso tempo il particolare, completamente ripiegato sul proprio istante e sul proprio luogo, e questa unità, ora quasi vissuta».
L’oscillante gioco fra colori assolati, intensamente profumati, e figure ritagliate e come smaltate ci fanno pensare anche alla pittura bizantina oltre che a certi contrasti tipici del mediterraneo, netti e drammatici. E il pensiero appare profondamente annidato nei dettagli visivi e olfattivi. Qual è il tuo rapporto con la filosofia?
La poesia non è solo “la” poesia ma una identità che rinvia a piani di realtà diversi, a un palinsesto identitario. Si tenta di integrare questa identità – i suoi dettagli assolati, profumati, smaltati, netti e drammatici – nel tutto; si tenta un ritorno alla stessa frequenza del mondo. Ma la poesia è una nostografia dell’anima al confine di ogni esperienza di percezione e tornare non è possibile. Non possiamo inserire la poesia nel conosciuto, né il conosciuto nella poesia perché questo tutto è solo ciò che noi conosciamo mentre la poesia tende ad andare oltre, verso ciò che non si conosce, verso l’alterità, l’esteriorità, il fuori. Anche quando questo fuori è dentro di noi, a costo di trovare questa alterità solamente dentro di noi.
Integrare il tutto nella poesia è inutile per quanto ci si sforzi di rendere universale il verso. È, probabilmente, questa impossibilità di far coincidere l’identità con l’intero a darci l’impressione di mancare bataillanamente sempre la poesia.
Il linguaggio della poesia disobbedisce alla poesia stessa e ai nostri goffi tentativi di collegarlo ad altri linguaggi: l’arte, la filosofia, etcetera. La poesia è contiguità. Dobbiamo rassegnarci. L’imprecisione del linguaggio poetico è sostanza del segreto e insieme l’unico canale verso l’immediatezza dell’intuizione. Né immediatezza né mediazione, né chiarezza né oscurità, né vita né morte: la poesia, sospesa tra due soglie, si pone come interruzione, finzione di una piccola morte, il tempo dell’istante. Questa discontinuità è ripetuta dal poeta; e non si potrebbe ripetere l’atto poetico se l’atto poetico non si ponesse come interruzione, un godimento da reiterare kierkegaardianamente.
Blanchot radicalizza Hegel quando sostiene che «l’ingresso nel linguaggio comporta una perdita»: Je dis: une fleur! dico, ma qui non c’è un fiore. Il linguaggio è perdita ma è anche restituzione. Il fiore è l’alterità, l’esteriorità di cui noi incessantemente rievochiamo l’assenza. Il fiore è l’assenza del fiore, la poesia è l’assenza mallarmeiana della poesia: sembra una tesi suicidaria ma è un anelito, invece, verso l’ignoto. La poesia è un’esperienza limite.
Sappiamo che sei una musicista, che sei diplomata al Conservatorio. Come vedi la relazione tra le due sfere: pensare la musica, pensare la parola?
Le poème – cette hésitation prolongée entre le son et le sens.
Paul Valéry
Dovremmo forse restituire voce al segno ch’era servito un attimo prima a incidere – o bloccare – il flusso vivo del pensiero, a eternarlo; a discretizzare, nominalizzare il continuum primigenio. Il silenzio plumbeo delle sirene soggioga l’inconscio appena liberato in poesia, lo riconduce all’ordinamento parassitario della scrittura e a sé stesso, tout court, solo raffreddato. La lettura esofasica corrisponde quasi a un parto sonico in cui la ricezione consente di riconoscere il suono materno, riconciliarsi a esso.
Credo sia il ritorno periodico degli accenti nel flusso parlante a cullare, a generare un’induzione motoria, quasi una musica di la ‘ncunia dove l’incudine è lingua che batte e sbatte sui caratteri plumbei di un foglio bianco (di ddocu veni a musica!). I poeti sono i Velázquez nella fucina di Vulcano, sono i mitici Dattili, les marteaux sans maître, i creatori della musica nata non dal canto degli uccelli ma dal rumore delle lingue, dei martelli che gli operai «battono armoniosamente in cadenza», scrive D’Alembert.
Immagini, suoni e parole servono a dare ordine e ritmo nell’immaginario della coscienza; rimandano al tempo, al suo fluire; allo spazio, la sua presenza, la sua assenza; all’unità, insomma, che l’io tenta di raggiungere tramite l’opera d’arte nel suo ineluttabile destino di disfacimento.
L’io poetico sta in bilico tra Mosè e Aronne, tra la purezza dell’idea inesprimibile e la parola. Quello della poesia è un linguaggio vero e proprio, metalinguaggio, koinèestesa quanto quella musicale; forma significante le cui strutture presentano somiglianza con la nostra vita spirituale che può così essere colta anche intuitivamente. Non è dunque un linguaggio come il parlato ma può essere considerato lingua metaforica, ibrida con un potere superiore a quella parlata.
Il linguaggio non è sufficiente a cogliere i nostri stati emotivi, non è sufficiente a cogliere i movimenti del corpo e della psiche, a mettere a fuoco l’indicibile, la bellezza nella sua caducità. Il dolore provocato da questa caducità produce l’attesa di una nuova realizzazione della bellezza. La musica e la poesia soddisfano naturalmente questa erotica attesa grazie al rinnovarsi kierkegaardiano dell’ascolto-lettura.
Poesia, dunque, come iniziazione al suono per il tramite corporeo della parola. Il mio bilinguismo poesia-musica si esplica nel gesto sonoro che abbraccia la loro unità melogenetica. Reiterando la lettura ad alta voce le parole perdono il senso di sé per diventare suono, smettono di denotare e iniziano a connotare restituendo nuovi significati come se rinascessero dall’ipnosi esofasica, dal piombo dei caratteri tipografici. Il bergsoniano tempo interiore, la durée réelle, anela così a diventare spazio, reificazione di sé: tempo e spazio «simboli non consumati», scrive Susanne Langer, di una partitura poetica.
Per rompere l’incantesimo che ha trasformato lo spirito in carta e scacciare gli spiriti malefici che si irrigidiscono nel senso rinunciando al suono o che si abbandonano al suono rinunciando al senso, invocherei volentieri lo spirito di Berlioz e il suo coro di demoni de “La damnation de Faust” che intona un testo privo di qualsiasi significato e ricco di armonici: «Has! Irimiru Karabrao! Has! / Has! Has! Méphisto!» Un pandemonio, pura poesia.
Intelligibile e intraducibile allo stesso tempo esattamente come la musica, la poesia proprio per questo rivendica spazio all’oralità, per rinominare il mondo, farlo riapparire dopo la sua scomparsa nel silenzio plumbeo tanto distante dalla strada, ricrearlo nella fucina di una nuova fabbrica illuminata.
La tua attività, ricchissima, nel campo letterario ti vede protagonista di un importante premio per i giovani poeti in Sicilia. Puoi farcelo conoscere meglio?
La Balena di ghiaccio nasce dal desiderio di fare germogliare la poesia contemporanea e il fare poetico tra i giovani e di colmare, seppure in parte, le lacune generate dai ristretti tempi scolastici. Il premio, dunque, è rivolto a studenti della scuola secondaria superiore ed è dedicato al poeta e psicoanalista Basilio Reale. Vissuto tra Capo d’Orlando e Milano, Reale è autore di due saggi: “Sirene siciliane. L’anima esiliata in «Lighea» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa” (Sellerio, 1986; poi Moretti & Vitali, 2001) e “Le macchie di Leonardo” (Moretti & Vitali, 1998); e di diverse raccolte in versi: “Forse il mare” (Schwarz, 1956), “Le quotidiane abitudini” (Rebellato, 1959), “La vita attiva” (1963), “I ricambi” (Mondadori, 1968), “L’esistenza amorosa” (Scheiwiller, 1989), “Travasare il miele” (Scheiwiller, 1996), “La balena di ghiaccio” (Aragno, 2000).
Giunto alla terza edizione e sostenuto dall’Assessorato ai Beni Culturali di Capo d’Orlando, il premio deve molto alla collaborazione dello Spazio LOC Laboratorio Orlando Contemporaneo e alla lungimiranza di un artista, Giacomo Miracola. Deve moltissimo anche a un altro artista, Emilio Isgrò che, in qualità di presidente della giuria, testimonia così la storia bellissima di un’amicizia, quella con il nostro Silo.
Il 2017 è un anno importante. Il III Seme, infatti, consente di fare un primo bilancio di questa avventura e spiega l’essenza del progetto: in tre anni, nell’arco di sei mesi di laboratori, attraverso undici archetipi – Aria, Acqua, Terra, Fuoco, Notte, Sirene, Uccelli, Tigre, Caduta, Conchiglia, Porta – ottantuno partecipanti hanno scritto circa quattrocento componimenti in versi. Il Laboratorio di sperimentazione ha accolto gli studenti di tutte le scuole orlandine secondarie di secondo grado e ha permesso l’incontro con tredici poeti: Franca Alaimo, Roberto Deidier, Enrico De Lea, Sofia Demetrula Rosati, Renato Fiorito, Bianca Garavelli, Stefano Guglielmin, Fernando Lena, Dante Maffia, Valerio Magrelli, Daita Martinez, Margherita Rimi, Patrizia Sardisco. Inoltre, più di quaranta poeti hanno inviato le loro poesie edite e inedite in lettura; alcuni autori hanno spedito video, altri lettere e altri ancora hanno dialogato con i balenotteri via etere. Difficile riuscire a contare, invece, i poeti scelti per approfondire lo studio degli archetipi e delle forme dell’immaginazione, l’imagination materiélle di cui parla il filosofo francese Gaston Bachelard.
Le suggestioni interdisciplinari di musica, letteratura e arte visiva servono a immergere gli allievi in un’atmosfera di volta in volta diversa sulla base del seme-archetipo scelto. Costanti i riferimenti alla poesia classica – curati da Domenica Sindoni – punto di partenza del lungo processo di elaborazione di forme, immagini e concetti che si snoda fino ai nostri giorni. Ed è così che il cosmo razionato dalla scienza e dalla ragione viene montato, rimontato e restituito sotto una luce nuova agli studenti che nel corso dei laboratori sono invitati a comporre in versi. La scrittura poetica è qui intesa come operazione di manipolazione, reinvenzione e comprensione originale della realtà. La motivazione principale della Balena sta, infatti, nell’educazione alla bellezza, medium verso l’unità dell’uomo; e le poesie più belle confluiscono, così, in una antologia cartacea dove le sezioni dedicate a ciascun archetipo sono introdotte visivamente da foto e disegni dei ragazzi stessi.
La spinta infantile alla poesia, insita in ciascuno di noi, può trovare terreno fertile in un contesto – quello siciliano e orlandino in particolare – così vocato alla cultura poetica. Basti pensare a figure come Lucio Piccolo, Bartolo Cattafi, Stefano D’Arrigo, Basilio Reale, Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Costa, Jolanda Insana, Emilio Isgrò. Giusto per citare solo alcuni autori appartenenti al messinese.
Quest’anno, il progetto si è arricchito grazie al coraggio di un editore, Giovanni Fassio, che ha accettato di pubblicare un leporello cetaceo in versi (Fiorina edizioni) scritto dal vincitore del III Seme. Per questo motivo, entro le vacanze di Natale, uscirà il libro a soffietto di una diciottenne talentuosa, Federica Corpina. A impreziosire i versi saranno le opere d’arte realizzate dagli studenti della scuola secondaria superiore e scelte dalla giuria della Balena. Un buono auspicio, insomma, questa Balena. O un sogno: quello di gettare semi d’arancia propizi alla nascita di nuove generazioni di lettori di poesia, di fruitori d’arte.
Da qualche mese dirigi la collana Isolario, nata da una tua idea, con Fiorina edizioni. Qual è l’intento della collana? Che cosa ti proponi?
La collana Isolario nasce marsorridendo tra le schiume e le isole bipennate e liminali all’altezza del sole. Un nicchiarello di carta viva ripiegato a fisarmonica da musiche e «allisciato ancora alla grande calmeria di scirocco», direbbe Stefano D’Arrigo. Isolario si mette ora a soffietto ora a repentaglio sulle vie di acqua e vino – aluntino mamertino malvasia – e sulla scia di sirene e dei loro incantamenti. Ma in special modo in balia del tomasiano terzo sortilegio di Lighea: quello della voce.
La casa editrice di Giovanni Fassio crea leporelli d’arte e poesia a Varzi, nell’Oltrepò Pavese. Il leporello, ovvero il libro pieghevole, il libro zig-zag o concertina prende il nome dal servitore del Don Giovanni di Mozart, che portava sempre con sé un catalogo piegato a fisarmonica con annotate le imprese amorose del suo padrone. Un modo antico di fare editoria – si pensi al Muraqqa islamico – vocato al bello, alla cura estrema dei dettagli, al ritorno all’uno di immagini-parole-carta.
Questa collana è una iniziativa editoriale che si propone di selezionare la poesia contemporanea con tutti i rischi che comporta una selezione. Ora potrei sciorinare criteri di serietà e promesse di vario ordine, ma preferisco che a parlare sia il bilancio che dopo un certo periodo di tempo saremo in grado di fare. Alcuni poeti mi aiuteranno in questa selezione; e ci saranno artisti che, ispirati ai versi, trasformeranno i leporelli in gioielli di carta. Il contratto non prevede né spese per gli autori né l’acquisto obbligatorio di leporelli.
Il mio “Etcetera” ha il privilegio di essere il numero uno di questa collana sfrontata e sirenica. “Cercando l’isola” di Salvatore Ritrovato reca il numero due. Per semplificare: un’anima più sperimentale e un’anima più lirica. Insomma, un’isola della poesia.
Siamo ospiti di uno degli splendidi castelli medievali della signoria Malaspina, che avevano stabilita la propria residenza principale, in questo territorio, tra Oramala e Varzi, per poi estenderla anche oltre, ma erano provenienti dalla Lunigiana, in particolare da Luni, da Mulazzano, da Fosdinovo e da Fivizzano. Proprio in Lunigiana arrivò nel 1306 Dante Alighieri, umiliato da un processo sommario e quindi esiliato per volere di Papa Bonifacio ottavo.
Dante aveva conosciuto alcuni esponenti della famiglia Malaspina nel contesto delle dispute tra Guelfi e Ghibellini, e la sua competenza diplomatica, oltre alla sua fama legata al mondo dell’invenzione poetico-letteraria, risultò idonea a trattare per conto dei Malaspina la pace del 1306 con il Vescovo di Luni, avente come oggetto la spartizione della controversa eredità degli Obertenghi. L’esito favorevole di questa trattativa rinsaldò i rapporti tra Dante e alcuni esponenti della famiglia, in particolare Franceschino, Moroello e Corrado Malaspina, che poi ritroviamo animare le vicende cavalleresche ma anche poetiche e musicali legate al castello di Oramala, e che come sappiamo sono richiamati da Dante Alighieri in alcuni passi della Commedia: Corrado, in particolare , nell’ottavo canto del Purgatorio, che così recita:
Se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.
Fui chiamato Currado Malaspina;
non sono l’antico, ma da lui discesi,
a’ miei portai l’amor che qui raffina.
Ecco un possibile punto di contatto tra questo scenario e il bellissimo libro di Quirino Principe, Aion, che abbiamo l’onore di presentare oggi. Abituati come siamo ad apprezzare i suoi densi e preziosi contributi saggistici sulla musica colta europea, da Gustav Mahler a Richard Strauss, da Ludwig van Beethoven a Richard Wagner, o le sue cronache musicali ad ampio respiro, talora venate da uno spirito polemico che non risparmia né le istituzioni, né il mondo politico né quello ecclesiastico, e nelle quali assume sovente il ruolo coraggioso di Paladino della Centralità della Musica nell’esperienza estetica e civile della comunità umana, di fatto spesso disattesa, imbatterci in un testo poetico di Quirino Principe potrebbe risultare una sorpresa. Ma non lo è, se ricordiamo gli innumerevoli contributi e impegni di Quirino Principe anche in ambito letterario, filosofico, editoriale, teatrale, germanistico, e in parte anche dantesco, che gli sono tra l’altro valsi premi e riconoscimenti nazionali e internazionali.
Oggi presentiamo un suo recentissimo libro-leporello ‘Aion’, che vede la luce nella preziosa produzione editoriale Fiorina di Giovanni Fassio, originale nel formato e preziosa nella grafica, propria del miglior gusto artigianale italiano. Quirino Principe, in ‘Aion’, quasi reincarna il trobar clus provenzale di Arnaut Daniel, poeta aquitano medievale tenuto in massima considerazione dal suo coevo Dante Alighieri, di cui Quirino vanta, forse unico in Italia, la conoscenza mnemonica dell’intera Commedia . In ‘Aion’ Principe propone una inedita cosmogonia lirica ispirata al concetto del tempo, sostanziata da visioni e immagini di contenuto sostanzialmente apocalittico, e forse anche da una sottesa ispirazione di tipo autobiografico. Il significato di ‘Aion’ è quello di un tempo concluso in modo irreversibile, una sorta di finis terrae rapportata alla più vasta dimensione del Cosmo. Ma è un Universo che ne implica altri in parallelo, e che una formica, o myrmex, può raggiungere e toccare passeggiando su una striscia di carta, fino a confluire nell’immagine simbolica e al contempo reale di una incisione realizzata dal pittore inglese William Hogart nel suo ultimo anni di vita, il 1764, intitolata Finis on the Bathos.
‘Aion’, o eone, inteso quindi come tempo assoluto, qui visto nella sua gelida e silenziosa conclusione, fine, rovina; aion, ancora, in senso neoplatonico, come intermediario tra il mondo della luce e il mondo della tenebra; aion, infine, come unità di misura del tempo geologico, dal criptozoico al fanerozoico, dall’era paleozoica a oggi, quasi un miliardo di anni. Nel vasto e allo stesso tempo sintetico immaginario del suo componimento poetico in cinque parti, Quirino Principe ci segnala tra l’altro la paralisi degli astri, la morte dei cavalli, gli ultimi momenti di Kronos, padre di Zeus. Kronos non si rivolge più a Dio, ma al caos, un’immagine che rende particolarmente calzante il riferimento di questa citazione alla società contemporanea. Poeticamente, quasi cinematograficamente, gli universi paralleli di questa fine del tempo sono illuminati da corpi un tempo detti celesti, la stella bianca di Zubenelgenubi, la stella rossa gigante Antares, l’Anti-Marte di cui alle scoperte biochimiche di questi ultimi giorni, o ancora Angol, Alcor, Alpha-Centauri, Vega, Deneb, Altair.
In questa rappresentazione cosmologica sospesa, algida e grigio-verde, efficacemente resa, nel volume, dagli acquarelli di Loredana Muller, Quirino Principe intreccia in un grande affresco di concezione in parte dantesca, ispirata proprio dal reticolo di citazioni e simbolizzazioni umanistiche e numerologiche proprie della Commedia. In ‘Aion’ si intrecciano civiltà classiche e riferimenti scientifici, oggetti e personaggi, mitologie e visioni contemporanee, come il rogo del Teatro Petruzzelli di Bari, avvenuto nel 1991, non a caso citato nella parte del poema intitolata Bari, o la stigmatizzata incompetenza beethoveniana di Jorge Maria Bergoglio, alias Papa Francesco. In questo grande ma sintetico polittico di citazioni e riferimenti c’è posto per il matematico Georg Cantor e per il Kantor supremo della polifonia e polivocalità eurocolta, Johann Sebastian Bach.
C’è posto per Cielo D’Alcamo come per Friedrich Holderlin e Friedrich Schiller. Quirino Principe, come accennavo, ha strutturato il suo poema in cinque parti, alcune delle quali metricamente organizzate secondo il principio delle sestine proprie del citato poeta provenzale Arnaldo Daniele, Arnaut Daniel, chissà forse ospite a sua volta, all’epoca, del Castello di Oramala. E tra un preludio e un Postludio, riprendendo la forma ternaria del Bar di Hans Sachs, poeta tedesco cinquecentesco omaggiato da Wagner nella celebre opera I maestri cantori di Norinberga, ecco un Bare ove figurano, come accennato, innumerevoli astri, un Bari tra gelo e fuoco, forse memore di un Caronte novecentesco, Ferdinando Pinto, e di un acheronte popolato dalle contese tra palchettisti, enti territoriali e burocrazie statali, un Baro in cui l’autore allude alle mitologie scandinave, o norrene. Recita la fine del Postludio:
O circumdata cingoli! ..uno stagno
Appare a noi l’oceano, e buio è il vuoto
Ti sferza la vertigine:ecco il nastro
di spazio-tempo, la rete in cui cade
il plasma di un’azzurra-gialla Delo.
Itzar che due colori accende e strozza.
Il margine in cui l’orbita si strozza
ha parvenza di nebuloso stagno
dove e-Bootis include Delo
e l’enigma ch’è ancora libro vuoto
Goccia di luce dalla pulsar cade
ogni millisecondo sul suo nastro.
La formica s’inerpica sul nastro.
Dove la carta si storce e si strozza,
passa Uber die linie. Ed ecco, cade
l’asse che affonda e annega nello stagno
del tempo quasi immobile, già vuoto.
Sospeso enigma, senza fine, è Delo.
E tuttavia questa sorta di millenaristico affresco sulla fine del tempo e dell’Universo, scenograficamente punteggiato da immagini residuali di fossili, di bottiglie rotte, di scope spennate e polverizzate, di cumuli di stracci, di pezzi di campana, di torri in rovina, di frammenti di corone, di strumenti senza corde, persino di un abbandonato copione teatrale shakespeariano in qualche modo collegabile, come vedremo dopo, a una delle musiche evocate dal mio libro, questo affresco ulteriormente arricchito da citazioni tedesche, greche e latine, nonchè da riferimenti alla grande cultura del mondo arabo, sembra in conclusione, anziché dissolvere, rovesciarsi nell’augurio e anzi nella certezza di un nuovo inizio, di una nuova era. Laddove, citando Remy Gourmont, Quirino Principe ci ricorda che:
Tout est dit dejà, mais comme personne
m’ecoute pas il faut toujours recommencer
Tutto è stato già detto
Ma poiché nessuno mi ascolta
Bisogna sempre ricominciare.
La descrizione scientifica che illustra l’operazione artistica di Giovanni Fassio “Staffora Stream. 1978-1995” c’introduce all’interno dell’operazione, già svelando il suo armamentario di ambiguità, pur volendo fornirci le informazioni che servono a comprendere. L’artista sceglie, per la sua azione, la località Fego a 605 m. slm, dove scorre il torrente Staffora, ne indica le caratteristiche (morfologia, portata d’acqua, estensione) e descrive l’intervento artistico: delimitando uno spazio di 2 metri di larghezza e 46 metri di lunghezza con paline indicanti 23 riquadri di 2 metri di lato, procede a colorare i ciottoli tenendo conto del loro diametro medio: blu per quelli aventi diametro tra i 3,5 e i14,5 cm.; giallo per quelli tra i 12,5 e i 23,5 cm.; rosso per quelli tra i 18 e i 70 cm. L’intervento modifica un totale di circa 5000 pietre.
Successivamente, l’artista procede alla “registrazione degli spostamenti dei ciottoli provocati dalle piene stagionali, osservando e registrando i punti di ritrovamento”. L’ultimo sasso osservato-registrato avviene il 7 agosto del 1995.
Accompagnano questo lavoro, documentato fotograficamente, alcune splendide serigrafie che riportano la disposizione all’interno dei riquadri delle pietre diversamente colorate e che sono di grande vivacità e fascino. L’operazione squisitamente concettuale, la quale si innesta all’interno dell’ambiente naturale – ricadendo, a pieno titolo, nella Land Art – pone il problema del passaggio dall’ambito del concetto e del dato naturale alla sfera dell’arte. Come e dove avviene il passaggio?
Intanto, l’operazione che aggiunge i colori può essere messa in conto a un atto che vuole eliminare quanto c’è di naturale (tutte le sfumature dei ciottoli) per restringersi ai tre colori primari, esautorando la natura e dando spazio all’astrazione.
Se si parte dalla natura è solo per farla sparire. Pur anche l’azione di cercare le pietre colorate che la corrente ha trascinato con sé, negli anni successivi, evidenzia il ritrovamento di ciottoli su cui è intervenuta l’azione umana, non certo la natura: lo si riconosce fra mille altri solo perché è quello colorato. Non dunque tutti i ciottoli trasportati dalla corrente, ma solo quelli oggetto dell’azione che li ha modificati. Non più oggetto di oggetto di natura, ma nemmeno oggetto d’arte, a nostro avviso.
Inoltre, fatichiamo a dire estetizzazione dell’ambiente naturale in quanto sarebbe un estetico nell’estetico. Percepire paesaggio e azione artistica in sé non è ancora percepire una differenza tra le due. Dal punto di vista estetico, la percezione è attiva in entrambe le aree allo stesso modo e con le medesime caratteristiche. Non si produce differenza, si amplificano solo gli elementi in scena.
Galleggiano tra le due percezioni le tavole serigrafiche, elegantissime. Fatto fuori, d’un sol colpo, il dato naturale, di cui pure le serigrafie sono l’esatta riproduzione, meno tutto ciò che non sia colorato da Fassio, ci possiamo lasciare alle spalle l’operazione che queste tavole hanno prodotto. Solo tranciando la via naturale, imitativa, è possibile cioè rimettersi alla valutazione dell’atto creativo in sé che della rappresentazione ha estratto il referente per eliminarlo.
Per i fruitori conoscere l’iter processuale che ha portato alla formalizzazione dell’opera artistica è utile solo per misurare la distanza col fatto artistico. Perché incredibilmente la percezione del paesaggio e dell’iter processuale non ha alcun legame, ci permettiamo di dire con la tavola che, pure, da quelli nasce. Alle serigrafie si accorda valore artistico, non estetico. Ma non sarà definizione scontata. Ciò che ha prodotto le tavole vale come il vaso con fiori reali rispetto a un quadro floreale di De Pisis: appena un motivo di partenza.
Ora ciò che è rappresentato nelle tavole serigrafiche non ci appare più come la rappresentazione di un dato naturale. Diversamente di quel che accade per certe carte di scavi archeologici che riportano la posizione del rinvenimento dei cocci, le tavole di Giovanni Fassio non ricadono nell’ambito della rappresentazione, ma valgono in sé, come oggetto artistico. Una strana alchimia è avvenuta sotto gli occhi…
A Bosmenso di Varzi presso il ristorante Buscone, venerdì 15 luglio dalle ore 19:30 presentazione dei libri alla leporello di Fiorina Edizioni.
Gianni Grecchi e Roberta Buscone, con questo leporello ci catapultiamo nel passato, in un mondo nel quale non servivano strade d’asfalto o ponti. Per far attraversare i fiumi al bestiame c’erano appositi traghettatori; agli uomini bastavano invece i trampoli per domare i flutti dei torrenti. Bosmenso è uno dei rari microcosmi montani a non avere del tutto smarrita la memoria su tale insostituibile mezzo di locomozione. Il libro è nato innanzitutto come raccolta di fotografie, ritrovate nelle case degli abitanti del paese. Immagini che evocano storie narrate a partire da ricordi di volti che hanno lasciato la loro memoria impressa sulla pellicola. A cura di Roberta Buscone.
Verranno presentati inoltre: "Farfalle della Valle Staffora" con Francesco Gatti, "Anfibi della Valle Staffora" con Edoardo Razzetti, e "Il jazz è pop" con Luca Cerchiari, nel corso della serata assisteremo alla performance di Angelo Pretolani "Per vedere bisogna saper guardare" ed al "Concerto Jazz".
Cena all'aperto a menu fisso dalle ore 20:30, è richiesta la prenotazione, in alternativa: "spuntini volanti" in piedi. Per informazioni e prenotazioni: 0383 52224 - 338 6040562 in caso di maltempo la serata verrà rinviata a data da destinarsi. Evento organizzato dal ristorante Buscone.
La prossima disponibilità di un leporello che si propone come base per una diversa "forma mentis" sulla beccaccia. Cos’è un leporello? È un libretto (o album) originale, ma non nuovo: ha una lunga tradizione in Europa (dal IX secolo, soprattutto di produzione tedesca, ma anche in epoca vittoriana) ed in Oriente per trascrizioni di scritture buddiste e nel mondo islamico dal XVI secolo come album a margini preziosamente istoriati da grandi maestri. In pratica è formato da un’unica striscia di carta ripiegata a fisarmonica.
Il termine "Leporello", non rinvenibile sui vocabolari della lingua italiana, deriva dall’omonimo personaggio del Don Giovanni di Mozart che, durante la famosissima aria "Madamina, il catalogo è questo" recita l’elenco delle imprese amorose del padrone leggendo i nomi delle donne amate da un foglio piegato in forma di libro a soffietto! Nel nostro caso consta di circa 25 pagine, di piccole dimensioni (15 x 10 cm), stampate in digitale su carta pesante su un solo lato, in cui il testo scorre inframmezzato o alternato o sottolineato da una iconografia molto curata. È un prodotto di nicchia che "Fiorina Edizioni" rilancia oggi con l’ambizione di realizzare un "catalogo" ampio e vario che ne rispetti la versatilità.
Ma perché un "leporello" sulla beccaccia? Dal 2009 sono uscite alcune importanti, voluminose, aggiornate ed esaurienti opere su questa specie di grande interesse venatorio, che ne hanno sviscerato tutti i particolari morfologici, eco-etologici, gestionali ecc., molti dei quali dovuti a ricerche recenti, supportate da nuove, intriganti tecniche (es. teletrasmettenti satellitari, isotopi dell’idrogeno, DNA...). Ne sono stati Autori noti studiosi della materia quali Jean-Paul Boidot, Charles Fadat, Yves Ferrand, François Gossmann, Silvio Spanò...
A questo punto non si può negare il bisogno di una sintesi... ma non solo! È comunque strano, se non addirittura arrogante proporre una sintesi di sole 25 paginette a fronte di una sola delle suddette opere! In effetti non questo vuol essere, soprattutto perché si rivolge ad un pubblico in gran parte diverso! Non sono i "soliti" cacciatori specialisti, raffinati e acculturati, che probabilmente la snobberanno o semplicemente penseranno "Spanò sta diventando vecchio!".
Infatti l’approccio vuol essere diverso, vuole contattare altre persone ponendo come oggetto "un essere vivente" - la Beccaccia per se stessa - con la sua fantastica e incredibile esistenza e la conseguente capacità di attrarre l’immaginario nelle molteplici attività culturali umane. Una creatura come "monumento vivo" cui molti di noi devono molto, almeno psicologicamente (ma non solo), per un omaggio cui non bastano "tecniche di laboratorio", ma un profondo senso di rispetto. In realtà vuole riscattare la "Beccaccia preda", sublimandola in una sorta di "Beccaccia simbolo", doveroso riconoscimento di quello che è e rappresenta nell’ecosistema, ma anche di quello che è, ed è stato, elaborato dall’animo umano e dall’abilità di esprimerlo nelle infinite forme realizzabili.
Verosimilmente, proprio per la sua stringatezza intrinseca, questo "leporello" dovrebbe esser seguito da altri che si inserirebbero nel titolo del lavoro, "Dall’ornitologia all’Immaginario", approfondendone i singoli passaggi e i diversi aspetti, scivolando da un necessario rapido inquadramento tecnico-scientifico a quello più propriamente immaginifico. Chi fosse interessato a supportare questa iniziativa può visionare il prodotto a questa pagina.
Fonte articolo: giornaledellabeccaccia.it
Estratto dell'articolo riguardante il nostro libretto alla leporello apparso, a firma Serena Simula, sul quotidiano La Provincia Pavese in data 5 aprile 2016, pagina 46: Il libro di Francesco Gatti anticipa l'Atlante a cura del museo della scienza. Storie e Curiosità dei lepidotteri oltrepadani.
L'uscita è prevista per la fine di aprile, il piccolo gioiellino è intitolato Le farfalle diurne della Valle Staffora. L'autore è Francesco Gatti, operatore del museo di scienze naturali di Voghera (PV) che in attesa della pubblicazione l'anno prossimo dell'Atlante delle farfalle dell'Oltrepò Pavese, ha deciso di proporre un piccolo assaggio di quanto si potrà trovare poi sul manuale compilato dal museo.
Grande appassionato di lepidotteri e presidente della neonata associazione "Iolas" per lo studio e la conservazione delle farfalle, Gatti ha messo a disposizione il suo archivio fotografico realizzando iValle Staffora (24 pagine, 17 euro) si può acquistare sul nostro sito, un agile libretto che può essere utile a chi volesse dedicarsi all'osservazione delle farfalle in zona: << Chiarisco subito - ha detto l'autore - che non si tratta di un lavoro esaustivo o di una guida scientifica. Il progetto nasce come un libro-oggetto, un bel pensiero da regalare a qualche amico appassionato e non certo come una raccolta scientifica, cosa che invece sarà l'Atlante a cui stiamo lavorando dal 2010 con l'equipe del museo. Al suo interno ho inserito le immagini più belle a mia disposizione, che non ritraggono certo tutte e cento le specie di farfalle attestate in Valle Staffora >>. Zona ricchissima di lepidotteri, la Valle Staffora ospita tante specie autoctone ma anche alcune che arrivano da molto lontano: una di queste è la sudafricana Licenide del geranio [...].
Il presente libretto alla leporello curato da Francesco Gatti - primo di una serie da noi dedicata allo stato della natura oggi in Valle Staffora - riporta per la prima volta l'elenco inedito (o check-list) delle specie di Farfalle diurne presenti in Valle Staffora (Oltrepò Pavese). Il periodo di osservazione e raccolta dati va dal 2010 al 2015. Nella lista o chek-list trovano inoltre spazio non solo le specie di comparsa occasionale ma anche quelle da ritenersi oramai "scomparse" in quanto, da anni, non più segnalate (vedi il caso della meravigliosa Nymphalis antiopa).
Qui di seguito riportiamo un estratto dell'articolo a firma Serena Simula2017, apparso su La Provincia Pavese il 5 aprile 2016 dal titolo: Le meravigliose farfalle della Valle Staffora.
Oltre a quelle che arrivano dall'estero, in zona non mancano nemmeno gli esemplari a livello europeo come la Maculinea del timo [...]. Più comuni ma altrettanto belle, in zona si vedono spesso la Cavolaia maggiore (Pieris brasicae, un tempo così numerosa da rappresentare un pericolo per la coltivazioni orticole e oggi in continua diminuzione) e la Icaro (Polyommatus icarus): appartenente alla famiglia dei licenidi (le "azzurrine" come le chiamano in molti), abbellisce il paesaggio della valle nelle sue zone più incontaminate, mentre è in diminuzione nelle aree di maggior presenza antropica.
L'Oltrepò, di cui la Valle Staffora fa parte, è una delle zone più ricche dal punto di vista della popolazione dei lepidotteri: << Grazie alla sua posizione favorevole, a cavallo Europa Continentale e Mediterranea, a due passi dall'Appennino - ha detto Gatti - l'Oltrepò è una zona in cui è possibile incontrare qualcosa come 120 specie: un numero enorme, se si considera che nell'intera Gran Bretagna ce ne sono soltanto 56 e che in tutta Italia ne possiamo osservare 280, vale a dire poco più del doppio >>.