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Di Stefano Mura - Presentazione a Spazio E (ex Atelier Chagall)

 
Domenica 21 ottobre 2018, presso la galleria d’arte contemporanea “Spazio E”, si è svolta la presentazione di due leporelli editi da Fiorina edizioni: La fanciulla Tartaruga e Il ponte di Genova, entrambi illustrati da Stefano Mura.

“La fanciulla tartaruga”, favolesìa scritta da Maria Grazia Insinga, comincia il suo viaggio ad alta voce dal Naviglio Grande di Milano. Il testo è stato letto dall’attore Alessandro Baito. Le illustrazioni di Stefano Mura sono state il filo conduttore di un itinerario all’interno del racconto, allo stesso modo in cui la fanciulla viene guidata dal bibliotecario Cosimo alla scoperta di mondi e città nuovi ed affascinanti.

Il racconto della “fanciulla” visto come romanzo di formazione, dove un’anima curiosa e desiderosa di viaggiare scopre il mondo, e trova nel libro e nella saggezza della tartaruga gli strumenti e le guide per questa conoscenza. “Opera aperta”, come ama definirlo l’autrice, La fanciulla tartaruga vive una propria nuova vita nell’esperienza della lettura, dove si arricchisce di nuovi significati grazie alla libertà che l’assenza di punteggiatura offre a chi legge.

Le illustrazioni di Stefano Mura sono state ponti tra un pubblico molto attento ed un testo affascinante, grazie alla puntualità dei riferimenti uniti alla libertà d’interpretazione. Il linguaggio figurativo e realistico delle immagini ha dato forma visibile ed amichevole a concetti come la libertà, la cultura, la crescita, il viaggio.

Con Il Ponte di Genova Stefano Mura ha dato forma ad un pensiero attraverso il disegno, senza alcun testo scritto. La linea orizzontale del ponte offre due chiavi di lettura: quella orizzontale, dove si svolge la vita del ponte stesso; quella verticale, dove la vita del ponte entra in relazione stretta con quanto accade sotto l’impalcato stradale dove si trovavano le case, le fabbriche, le ferrovie, la città di Genova. Il segno rapido ed immediato è quello degli appunti, stesi su un carnet de voyage.

Un’immediatezza che non distoglie lo sguardo di chi osserva da alcuni problemi ed accadimenti fondamentali, pur articolando il racconto attraverso numerosi dettagli. Un racconto disegnato dove il vuoto ed il silenzio sono intervallo e preludio ad una tragedia che giunge improvvisa, con la fine delle vite di tante persone e del ponte stesso, osceno fantasma oggi incombente su case ormai disabitate.

Di Stefano Mura - Presentazione di "Il ponte di Genova, Viadotto Morandi: una cronaca"

Ho conosciuto Giovanni Fassio sull’Appennino pavese. Interesse comune: la bellezza delle farfalle. Con serenità e coraggio, dopo aver visto alcuni miei disegni, Giovanni mi ha suggerito di pensare a come avrei potuto illustrare un racconto, il primo di una nuova collana di carnet de voyage a leporello: “La fanciulla tartaruga”, scritto da Maria Grazia Insinga.

Conoscendo la qualità dei libri di Fiorina e avendo molto apprezzato il testo, ho accolto più che volentieri l’opportunità. Terminata la fatica della “fanciulla”, l’editore mi ha poi coinvolto nella preparazione di questo carnet sul Ponte Morandi a cui, per molteplici motivi, teneva molto. Il tema era delicato. Si trattava di parlare di un dramma appena accaduto con enormi conseguenze umane e materiali. Il rischio di urtare la sensibilità delle persone coinvolte, soprattutto le vittime, era alto.

Inoltre, io non sono genovese. Avrei potuto dare un’interpretazione parziale e riduttiva, o banale. Ho cercato di mettermi nei panni di chi si è visto costruire un viadotto sulla testa, in tutti i sensi: in senso concreto, perché il viadotto Morandi è passato sopra case già costruite e manufatti industriali; in senso metaforico, perché il ponte che sovrastava Genova era gestito e controllato da soggetti esterni alla città. Genova non era padrona del ponte. La vita del Ponte Morandi inizia nel 1967 con l’inaugurazione e finisce nel 2018 con il crollo. Durante questo periodo il viadotto è stato importante per la crescita economica, permettendo a tante persone di andare al lavoro e in vacanza, diventando veicolo di esperienze anche positive.

Negli anni il ponte si è rovinato. L’aumento esponenziale del traffico, soprattutto pesante; l’aumento dell’acidità dell’acqua piovana che ha aggredito il calcestruzzo insieme alla salsedine; tutto questo lo ha deteriorato rapidamente. Più rapidamente del previsto. A fronte di tutto questo, oggi veniamo a sapere di ispezioni, perizie, verbali, e manutenzioni non effettuate. Tanta tanta carta è stata prodotta. Ma non è bastata a tenere in piedi il Ponte Morandi.

Il disegno che ho preparato vuole rappresentare tutto questo. Esso stesso è un racconto. Si svolge su due registri: uno più “leggero” fino al crollo; uno più realistico e drammatico dal crollo in avanti. Non troverete in esso la raffigurazione precisa del ponte; è semplicemente una riflessione sulla vita di un manufatto e delle tante vite che lo hanno vissuto, annotata su un carnet de voyage.

Di Maria Grazia Insinga - Presentazione di "La fanciulla tartaruga"

La vista isola gli elementi, l’udito li unifica. Mentre la vista pone l’osservatore al di fuori di ciò che vede, a distanza, il suono fluisce verso l’ascoltatore. A differenza della vista, che seziona, l’udito è dunque un senso che unifica.

Walter J. Ong

È anche grazie alle tecnologie della parola e in particolare al rito laico della tv che oggi comprendiamo l’importanza della tradizione orale nella formazione secolare dell’opera scritta. In questo maldestro recupero dell’oralità dominato dai media – dopo un lungo periodo in cui la civiltà era caduta nella dimensione plumbea della scrittura privata di prosodia e ritmo – si colloca “La fanciulla tartaruga”: poème en prose o, meglio ancora, favolesìa. Qui i segni tentano di sfuggire al recinto della scrittura e, vocati a un ritorno alla dimensione orale, si lasciano sedurre da un’invincibile prosodia.Non esiste punteggiatura: quasi fosse un plumbeo intralcio al sé. D’altronde, se la punteggiatura è funzionale alla lettura silenziosa e la fanciulla tartaruga è totalmente priva di punteggiatura, è chiaro, allora, il sottotitolo – viaggi ad alta voce – che suggerisce la modalità elettiva per la comprensione. Ad alta voce – sicché tu goda ascoltando la voce delle Sirene (Odissea, XII, 52) - pertanto, si svilupperà l’inclinazione a un ascolto attento e non distratto come quello naturalmente indotto dalle tecnologie e dalla società di massa. Intonazione, ritmo, durata e accento sono ciò che conferiscono significato alla parola anche quando questa è scritta.

I tratti sovrasegmentali sono, in fondo, simili al fraseggio musicale e agli armonici, i suoni acuti e meno intensi di un suono fondamentale, che in musica determinano, tra l’altro, il riconoscimento del timbro di uno strumento.Così come in musica esiste una acquisizione del senso tonale che consente all’ascoltatore occidentale di completare armonicamente, anticipandola, una melodia tonale sconosciuta, esiste nella lettura di un testo verbale scritto una sorta di acquisizione prosodica per via della quale un lettore è capace di trovare il significato corretto dei segni e la corretta separazione delle parti del discorso grazie all’ascolto attento nell’atto della lettura ad alta voce seppure il testo in questione sia caratterizzato dall’assenza di interpunzione.

Leggere ad alta voce assimila, dunque, l’atto della lettura a quello dell’ascolto in musica. La fanciulla tartaruga si ribella alla “civilizzazione” emotiva della comunicazione di cui parla il linguista Otto Jespersen e che ha allontanato il parlato dal canto. Lasciate che una persona cara vi legga questo carnet de voyage ad alta voce: rileggendo, un giorno, riascolterete ancora quel canto, quella voce. La voce è il corpo del pensiero e non c’è nulla di più affascinante che ascoltare i tratti sovrasegmentali e gli armonici del corpo di chi legge. Il carnet de voyage scritto da Maria Grazia Insinga e illustrato da Stefano Mura è un viaggio incantato e stupefacente tra natura e cultura, sul filo dell'allusione e della citazione dotta che, accanto all'aspetto godibilissimo del puro racconto e di un'iconografia particolarmente evocativa, dialoga e contrappunta finemente il testo.

Un libro pieno di grazia, un piccolo scrigno custode di una storia preziosa. Festina lente, ma non troppo lentamente, potete prenotare ora, con uno sconto del 15%, qui. La FanciullaTartaruga vi aspetta al BookPride18 di Genova dal 28 al 30 settembre - Palazzo Ducale, Stand 78 - insieme alle altre creazioni Fiorina di Giovanni Fassio.

Maria Grazia Insinga vive in Sicilia dove insegna Pianoforte presso le Acquedolci dell’Istituto “G. Verga”. Dopo la laurea in Lettere moderne e gli studi musicali, si dedica all’attività concertistica e al censimento, alla trascrizione e all’analisi dei manoscritti musicali del poeta Lucio Piccolo. Ha pubblicato tre libri di poesia: Persica (Anterem, 2015), Etcetera (Fiorina, 2017), Ophrys (Anterem, 2017).

Stefano Mura vive in Lombardia dove lavora come architetto. Dopo la laurea al Politecnico di Milano, si occupa di fumetti e illustrazione. Ha partecipato al RainBowie festival, ha pubblicato due storie a fumetti da E. A. Poe e A. S. Puškin (Menhir edizioni, 2017) e ha in preparazione un graphic novel.

Fiorina Edizioni partecipa al Book Pride Genova 2018 (Stand 78)! dal 28 al 30 settembre 2018 presso Palazzo Ducale saranno disponibili i nostri nuovi libri a carnet de voyage: La fanciulla tartaruga, Entomologia a zig zag - Scopoli, Panni a stendereGenova, Argentera, La flotta, Sette velieri tratti dal celeberrimo Fifty plates of Shipping and craft, Ponte Italia… e molto altro. Vi aspettiamo e proponiamo uno sconto del 15% a chi prenota prima della Fiera.

La fanciulla tartaruga

La fanciulla tartaruga è la prima delle novità ad essere pubblicata e a breve seguiranno le altre, un testo narrativo di Maria Grazia Insinga con illustrazioni di Stefano Mura. Un viaggio incantato e stupefacente tra natura e cultura, sul filo dell’allusione e della citazione dotta accanto all’aspetto godibilissimo del puro racconto e di un’iconografia particolarmente evocativa che dialoga e contrappunta finemente il testo. Un libro pieno di grazia, un piccolo scrigno custode di una storia preziosa.

La nostra vocazione

Fiorina Edizioni nasce nel 2006 in Varzi, antico borgo dell'Oltrepò pavese. Ci piace pensare di poter divenire una sorta di veicolo per un universo immaginativo di variegate forme. Fiorina è infatti al tempo stesso stamperia d'arte di eclettica produzione grafica e una piccola casa editrice orientata alle tematiche del mondo rurale e delle scienze naturali. La nostra vocazione è - in ogni direzione - la miglior qualità disponibile: dei contenuti, delle forme, dei materiali.

I Leporelli danno vita a una collana di libretti d'artista, assemblati a mano in edizione numerata, con la struttura a fisarmonica autosvolgentesi di mozartiana memoria; la stampa è digitale su carta pesante fine art opaca.

I Carnet de voyage a pagine bianche con struttura a Leporello sono supporti innovativi per molti aspetti; assemblati anch'essi a mano artigianalmente, sono connotati da grande adattabilità di impiego, grazie alla particolarissima conformazione a zig zag, in diversi formati.

Intervista di Grazia Calanna a Giovanni Fassio
Articolo originale su l'EstroVerso

Intervista a Giovanni Fassio - Fiorina Edizioni

C’è un aneddoto legato alla nascita della vostre edizioni?
Più che di un aneddoto, dovrei parlare di un miracolo. Fiorina edizioni nasce nel 2006 a Varzi, nell'Oltrepò pavese, come stamperia d'arte e casa editrice di qualità legata in primo luogo alle scienze naturali in una prospettiva eco-editoriale. E questo, credetemi, è già un piccolo miracolo da raccontare.

Qual è la vostra linea editoriale e precipuamente in quale direzione si muove?
Fiorina è un progetto editoriale che sogna cercando di tenere i piedi per terra, tra passione e lavoro duro (leggi “durissimo”). Mi piacerebbe, un giorno, poterlo definire "lucida follia". La parola d'ordine è senza dubbio “qualità”. Questo è il principio guida che ci muove, oltre all'ideale dell'originalità, la stessa che Bobi Bazlen chiamava “primavoltità”. La mia è una casa editrice che oggi si definirebbe “di nicchia”, benché la nostra intenzione sia quella di offrire arte e poesia al più vasto pubblico possibile. In quest'ottica abbiamo una severa attenzione a mantenere accessibili i costi delle opere che realizziamo. L’interesse spazia dall'ambito naturalistico e più largamente scientifico all'arte figurativa e alla poesia. La bellezza ha il potere dello stupore e del rapimento: questo è quello che muove e commuove.

Quali (attualmente) le vostre ‘collane’?
Ci sono diverse collane che vivono ai confini tra arte e artigianato: Le Lune, Isolario, Gattoparderie, Musealia, Jazz. E altre rivolte ad argomenti a me cari come entomologia ed erpetologia. Il nostro fiore all'occhiello è il Leporello di mozartiana memoria. Leporello è, infatti, il servo di Don Giovanni che tiene il catalogo delle sue conquiste. Un libro pieghevole, dunque, a fisarmonica che – ispirato al muraqqa islamico – si presta ai più svariati contenuti e tecniche di resa. La poesia è, con il suo breve respiro, il genere forse più congeniale e consente un equilibrio di carta tra immagini e testo. L'idea di un libro così strutturato sta incontrando una tale fortuna che abbiamo deciso di metterne in produzione anche esemplari in bianco come supporto ai progetti creativi ed ai viaggi interiori degli amanti dei carnet de voyage.

Viviamo nell’epoca delle facili pubblicazioni, in che modo un editore può salvaguardare l’autenticità della cultura e degli scritti che pubblica?
Credo che pur nel panorama variabile e di multiforme superficialità in cui ci troviamo a operare l'onesta scelta della qualità e del rispetto del lettore premi sempre in una misura per noi soddisfacente. Non sempre questa strada è la più facile – da molti punti di vista – ma nel lungo periodo resta la più onorevole. Questa è la via che, pur talvolta faticosamente, ha garantito la sopravvivenza e l'indipendenza di molti marchi, anche piccoli o piccolissimi. Rinunciare alla qualità equivale, per me, a una sciocchezza.

Pro e contro dell’ebook.
Credo che l'editoria digitale possa offrire molti vantaggi se bene utilizzata, ma non si adatta al leporello e non potrebbe mai veicolare i nostri messaggi, almeno per quanto riguarda la produzione odierna. Penso soprattutto alla poesia: sono convinto che ci sia molto da perdere in una sua digitalizzazione; la vedrei come una terribile banalizzazione, del tutto inutile, perché la poesia va interiorizzata anche attraverso un viaggio “car(n)(t)ale”, fatto di carta. I versi non si adattano, forse, alla velocità dell’etere e le occorre la lentezza della carta da percorrere con tutti i sensi. Un discorso analogo vale per la nostra produzione figurativa: i disegni, le incisioni e gli acquerelli di Fiorina Edizioni. In futuro, chissà.

Pensando alla vostra attenzione alla poesia domandiamo: oggigiorno in che modo è possibile avvicinare i lettori alla poesia? E, ancora, al di là dei nomi ‘consolidati’ in che modo è possibile per un editore ‘riconoscere’ (e decidere di pubblicare) un vero poeta? Qual è, a vostro avviso, lo stato di salute della poesia italiana?
Credo che l'unico modo per avvicinare la poesia ai lettori sia operare una scelta severa e a volte rischiosa tra i manoscritti che giungono in redazione. La poesia non è affatto morta, perché vivo, nonostante tutto, è lo spirito dell'uomo. Mancano ancora strategie editoriali valide alla valorizzazione dell’enorme potenzialità della poesia. Tuttavia è essenziale sapere distinguere.

La buona poesia si nutre di modelli classici, antichi e moderni, e si fortifica nella conoscenza delle regole, anche quando sceglie di violarle. La vera poesia è fatica e sofferenza e gioia; non è facile scriverla, né selezionarla, né pubblicarla. Ma vale la pena fare poesia e rischiare. Dalla collana dedicata a Leopardi – Le Lune – a quella di poesia contemporanea inedita – Isolario – l’obiettivo di Fiorina è quello di condividere con i nostri lettori un’esperienza interiore profondissima. Tra tutti, penso al leporello firmato da Quirino Principe per Le Lune, Ad Arimane:

[…] Se anche una minima parte dell’energia cosmica che fu Giacomo Leopardi sussiste da qualche parte nel nostro universo, voglio immaginare che il suo rifugio coincida con il luogo vagamente surrealistico del quale lo stesso Leopardi ci fornisce le coordinate (Z. 251)

… una casa pensile in aria, sospesa con funi a una stella: poesia.

E penso al leporello di Federica Corpina per Isolario, Per fuoco non per tempo: l’opera prima di una diciannovenne di talento che con la sua scrittura ha vinto ogni riserva sulla possibilità per un editore di sostenere una perfetta sconosciuta. Rischiare, lasciarsi sedurre da un fuoco che, evidentemente, non si trova solo tra i poeti affermati; anzi, a volte è proprio lì che non si trova.

Quali (più in generale) le peculiarità dei vostri autori?
Gli autori e collaboratori di Fiorina Edizioni sono, o diventano presto, amici, sodali, compagni di viaggio come accade in tutte le piccole realtà editoriali in cui si condivide un ideale estetico ed etico. Sono poeti, uomini e donne di scienza, artisti che credono in questo progetto. Ognuno con la propria peculiarità, tutti consapevoli del potere della bellezza capace di vincere ogni dittatura visibile e invisibile.

Sabato 19 e domenica 20 Maggio vi aspettiamo a Yacht & Garden con i nostri originali carnet de voyage a leporello e non solo! Oggetti unici e speciali creati a mano con passione. Yacht & Garden offre l’opportunità di coniugare due grandi passioni: il mare e il verde. Passeggiando tra moli, banchine e bellissime imbarcazioni sarà possibile ammirare e acquistare, da selezionati vivaisti, essenze e fiori meravigliosi adatti al giardino mediterraneo: piante annuali, biennali e perenni fiorite, alberi e arbusti da bacca, piante cactacee e succulente, piante aromatiche e officinali, piante da frutto e da orto, agrumi e piccoli frutti, senza dimenticare particolarità come frutti antichi o sementi rare.

Sul tema del giardino e della natura, inoltre, Yacht & Garden propone antiquariato da interni ed esterni, vasi e cesteria, tessuti e decorazioni, borse e cappelli, gioielleria e bigiotteria, dipinti e stampe, libri e riviste, mieli e sciroppi, profumi e prodotti di bellezza naturali. Ricco, infine, il programma di eventi collaterali volti a diffondere e a valorizzare la “cultura del verde”, in collaborazione con importanti partner e istituzioni: da incontri con esperti vivaisti, a laboratori per bambini; a mostre d’arte; a esibizioni musicali e di danza.

Vi rimandiamo al sito dell'evento dove è possibile visionare il programma delle due giornate. Ingresso e parcheggio gratuito.

Doppia nota di lettura di Anna Maria Curci e Andrea Accardi
Articolo originale su Poetarum Silva

Etcetera di Maria Grazia Insinga dischiude cieli e lande e flutti situati – e scovati – in luoghi discosti. Da altri relegate, forse per pavido sentire, da altri messe al bando, “tutte le altre cose” si manifestano qui come metamorfosi moltiplicate, oltre le rassicuranti versioni ufficiali, al di là dei miti addomesticati e delle dicerie annacquate. A chi spetta il compito di esplorare maschere e forme di presenze, correntemente designate – così da poter essere riconosciute come ‘altre’ (et cetera!) – come “il mostro”, “la dea”, “la bestia”, “l’avvelenatrice”? Da dove vengono “tutte le altre cose” qui narrate? I quesiti sono leciti e affiancano la lettura di un’opera che merita il sottotitolo “Ex ceteris”; essa proviene infatti da “tutte le altre cose”, che esistano in natura o no (si veda la citazione in esergo da Rilke), che siano filiazioni di menti individuali oppure di sentire comune. Per ciascuno dei componimenti qui raccolti, le postazioni dalle quali si narra, oppure si descrive, o, ancora, si rivela, sono molteplici («dentro il nicchio di ulivo preservate»; «un intero bosco di bestemmie silvestri»; «in un mar rosso/ in cerca della coralligena»; «in extremis»; «dall’altro/ capo»; «assi di legno tappeto di foglie i miei piedi»; «il suo tappeto è interdetto ai morti»; «non era la tromba del giudizio erano/ scale a spirale sul nulla»; «in questa fogna») e non di rado tanto difformi da risultare sonoramente, oltre che intenzionalmente, spiazzanti.
Occorre allora accettare l’invito a un viaggio vertiginoso tra alture e abissi, sprofondare nella terra e lanciarsi a «succhiare l’ultima acqua dell’ultimo fiume», se si vuole – e questo è, ai miei occhi, l’invito, qui sfida, della vera poesia – riemergere trasformati, più consapevoli di «tutte le altre cose».

© Anna Maria Curci

Poche settimane fa, durante una presentazione a Palermo, la poesia di Maria Grazia Insinga, e in particolare quella della sua ultima opera Etcetera, è stata accusata da uno spettatore di mancare di tragicità. Un rischio che può correre un tipo di scrittura che non propone dichiarazioni perentorie sul mondo, ma segue le traiettorie dei significanti aspettando che significati inattesi si dischiudano nell’après-coup («le insepolte in extremis le stremate»; «terribile tutto ciò che inizia/ con terra e finisce con moto/ e con bile e terreo con ore»). Ma il punto è che la poesia della Insinga non abdica affatto alla tragicità del senso, anzi la fonda proprio nell’impossibilità di chiudere il discorso, di esprimere una verità almeno parziale, di risolversi in sentenza. Questi versi resistono insomma alla tentazione di una poesia sapienziale, apodittica, in fondo rassicurante. L’indagine resta invece per sempre e drammaticamente sospesa, come il titolo, tutt’altro che minimalista, vuole annunciare: «in empiterno fararsi etcetera etcetera».
Proprio a ridosso del punto di afasia e sparizione ricorre l’immagine dell’animale, della belva, del mostro, di matrice rilkiana, come la citazione iniziale rivela («Oh, questo è l’animale che non v’è in natura./ Non lo si sapeva, ma egualmente è stato/ – il collo, il portamento, l’andatura,/ fino alla calma luce dello sguardo amato.»); quel testo dai Sonetti di Orfeo (II, 4) andrebbe accostato al Rilke delle Elegie Duinesi, che nell’ottava elegia accerchia l’inesprimibile con un dispositivo figurale molto simile: «Con tutti gli occhi vede la creatura/ l’aperto […] Poiché vicino a morte più non si vede morte,/ si guarda fisso fuori, forse con sguardo grande d’animale». La scrittura tragica della Insinga si muove lungo lo stesso recinto sacro, di una sacralità negativa, fatta di cose che non sapremo: «dentro il nicchio di ulivo preservate/ il sacro corpo da sacrilegi vari» (Il mostro). Come in Rilke, questa retorica orfica e magica serve soprattutto a esprimere i limiti percettivi del soggetto, e la sua sofferenza rispetto a questa limitatezza; da cui immagini di vertigine, accecamento, morte: «l’altra è incoronata senza testa e corona/ da quel momento cammina sulla tigre»; «non era la tromba del giudizio erano/ scale a spirale sul nulla o l’orecchio/ della bestia meravigliosa» (La bestia); «e prima di tutto dice mostro a maturare di luce» (L’avvelenatrice); «è solo oscuro il baio» (Sigillo). Ne deriva l’eloquenza inceppata di una poesia che “non sa dire”, che comincia dove finisce l’animale e viceversa: «manca l’animale che non c’è/ la visibile felicità la non visibile/ insieme tiene il simbolo e insieme/ non sopravvive alla poesia». Per dirla con un antico adagio, hic sunt leones, qui si ferma il discorso comune e perfino quello poetico, prolungato di un soffio dalla reticenza di un etcetera.

© Andrea Accardi

Il mostro

Dentro il nicchio di ulivo preservate
il sacro corpo da sacrilegi vari e i rimanenti
murate la nicchia per pietà e rispetto
muratele il petto urlano i muti e i muti seni e l’altre cose
indicano dove scavare e finirà l’ossigeno etcetera
e il lume e la targhetta d’argento giurerà

è la testa della madre della madre
accorreranno nobili a dividerle il cranio e altre cose
all’altro capo barattare polvere con la terra
fuoco con altro fuoco a capo
una grazia con un fottutissimo grazie e niente
in empiterno fararsi etcetera etcetera

*
un intero bosco di bestemmie silvestri
lavorate a bulino nella conchiglia corrotta
accorri Idrisi e i corallai lei è sana e io
maledetta! ricaccia nella pozza di seni
l’odio tutto e l’amo di banale amore amaro
e disperati i tuffatori arabici in un mar rosso
in cerca della coralligena lei gigante e preda
mai scovata e scava ancora e ancora maledetta

La bestia

non era la tromba del giudizio
scale a spirale sul nulla o l’orecchio
della bestia meravigliosa

le giumente in minuscoli pruni scomposte
vi scendevano e di così sensuale
non avevo mai visto

L’avvelenatrice

l’aceto dice l’ha dato la versiera
di sabato giorno delle colombe il cuore
marinato in aceto di vino e mosto d’uva
a invecchiare in una botte madre di aceto
l’aceto dice legni e fiati diversi dice carricante
e prima di tutto dice mostro a maturare di luce

Sigillo

Dame, quand je ne sai guiler,
Merciz seroi de seson més
De soustenir si greveus fés.

Thibaut de Champagne

è solo oscuro il baio
e puro e scalpita
e non ho finito

Recensione di Franca Alaimo
articolo originale su Un posto di vacanza

Inusuale quanto decisamente funzionale appare la veste editoriale di Etcetera dell’autrice Maria Grazia Insinga, se è vero che l’accostamento verbale-pittorico dei segni, la qualità della carta e la struttura a fisarmonica del libro (così vuoto e silenzioso sul retro assolutamente bianco, forse in attesa, come dice l’ultimo verso dell’ultimo testo e non ho finito di altri segni, o forse soltanto alternativa di purezza), servono a confezionare la scena cartacea più adatta al raffinato sperimentalismo di una scrittura, in cui ricchezza culturale, sapienza musicale, elementi biografici determinano un effetto di continuità pur all’interno di un’instancabile variazione. Tutto questo sollecita, insieme al godimento intellettuale, quello della vista e del tatto, coinvolti anch’essi in un’elaborazione simbolica a tutto campo.

E, dunque, i delicati acquarelli di Alessandra Varbella raffiguranti una serie di conchiglie, non vanno ammirati come semplici presenze “ornative”, ma come portatori di altri sensi ai sensi già veicolati dalle parole poetiche, le quali pure, in una sorta di imitazione delle trasparenze cromatiche di quelli, tessono un mobilissimo acquatico fluire di suoni, spesso germinanti l’uno dall’altro come si legge in: terribile tutto ciò che inizia/ con terra e finisce con moto / e con bile e terreo con ore, dove i corpi verbali integri di terrore, terribile, terremoto vengono scomposti in terreo, bile, moto, tutti attinenti all’orrifico, al monstrum, ma anche all’angoscia dell’eros. 

La frammentazione del corpo-lingua corrisponde a quello del corpo fisico, ché le sue parti (seni, gambe, testa, cuori) si spargono nei versi distruggendo una unità, un kosmos di ordine e bellezza obbediente al criterio della reciproca funzionalità e insieme acquisendo una nuova, autonoma significazione, con un rimando, per analogia figurativa e metaforica, al mito orfico dello smembramento del dio Dioniso. Con esso si istituiva, infatti, un processo trasmutativo grazie al quale l’atto separativo della coscienza normale diventa necessario per la sua reintegrazione e trasfigurazione, intesa, quest’ultima, come capacità di andare oltre le sue figure. Dioniso, che secondo Socrate è il dio che ispira i poeti, è, inoltre, portatore di furor e di traboccamento anche amoroso.

Né va dimenticato, per tornare alla simbologia delle conchiglie, straordinarie concrezioni del tempo (così come le parole e i miti) e creature acquatiche custodi del morbido della carne, che esse alludono agli organi genitali, soprattutto alla vulva e, dunque, si collegano al concetto di procreazione e fertilità. Avanzando nel territorio della realtà, come in quello dell’irrealtà, il linguaggio descrive contemporaneamente l’impossibilità del possibile e il possibile dell’impossibilità, in una sorta di groviglio inestricabile, che accosta il nitore dei dettagli alla visionarietà, creando un enigmatico teatro calcato da uomini che diventano bestie (capovolgendo il significato escatologico dell’incarnazione cristica e la centralità di un umano sempre più corrotto), avvelenatrici, divinità incapaci di compassione, tuffatori, personaggi della cultura come Idrisi e Paul Celan, giumente (che salgono e scendono scale a spirale al posto degli angeli della scala di Giobbe) e animali fantastici, come l’unicorno.

A esso rimanda l‘exergo da Rainer Maria Rilke, in cui la chiave di lettura, in rapporto a questo libro della Insinga, va colto nella capacità di rendere presente e reale l’assente, il quale egualmente è stato (…) amato, tentando l’innesto di una situazione biografica nel sistema mitico: così va letto il testo: la divinità non può toccare terra/ sono il portatore consacrato/ sollevo l’altra ridotta a divinità/ e non do mai il cambio a nessuno// il suo tappeto è interdetto ai morti/ e ai non l’altra siede su una pelle/ uno scranno la mia schiena a pezzi/ carponi i suoi piedi sui miei piedi che evoca una raffigurazione cinese della dea Kuan-yin, che troneggia su un unicorno disteso. All’eros rimanda comunque il corno dell’animale, simbolo bipolare, unificatore dell’elemento maschile, in quanto penetrante e fallico, e di quello femminile, in quanto, se capovolto, mostra la sua cavità. Al primo alludono i versi: mentre Paul tornava all’oscuro/ col membro eretto per l’ultima volta/ a succhiare l’ultima acqua dell’ultimo fiume, in cui Paul è lo scrittore Celan.

A questo proposito così scrive Antonio Devicienti: “Paul è l’unicorno che si lascia affondare nell’acqua-madre, il portatore del verbo che, però, non addiviene a una risoluzione positiva della propria vicenda (l’incarnazione che salva il mondo), ma, al contrario, torna all’indistinto dove principio e fine si confondono e sono inidentificabili.” Ma l’unicorno è anche metafora della poesia, in quanto, come l’animale si ammanta, all’interno delle varie civiltà che lo hanno accolto nel loro immaginario, di qualità e poteri opposti (distruttori e/o riparatori), così essa è chiamata a decodificare, destrutturare, desacralizzare per poi ri-dire, ri-fondare, ri-sacralizzare ciò che vive nel reale e nell’immaginario: è quanto accade nei versi prima citati, che attingono a un mito paleocristiano, secondo il quale l’unicorno entra in un lago avvelenato e, tracciando il segno della croce con il corno, lo purifica.

Solo che, nell’appropriarsi del mito, la Insinga lo sveste di ogni significazione religiosa per sottometterlo alle ragioni laiche della Storia e della Poesia ed all’insondabile mistero della Morte: nelle acque entra un uomo (uno scrittore nello specifico, che trovò la morte per acqua) e non l’unicorno-Cristo; e tutto scivola in una indeterminatezza che non sa dire, se non nell’impossibilità del dire, con chiaro riferimento alle vicende biografiche e letterarie di Celan, di certo uno dei più amati riferimenti dell’autrice, se è vero che, come lo scrittore ebreo-tedesco, anche lei tenta (ma senza ricorrere alla facilità della rima riparatrice) il ritmo della musica nei suoi testi poetici. E così torniamo a citare il breve testo conclusivo: Sigillo, concepito come una sorta di controcanto ai versi di Thibault de Champagne (poeta molto stimato dallo stesso Dante), che probabilmente vuole sottolineare il lungo cammino della poesia, dal duecento ad oggi: un viaggio senza sosta nelle parole, e senza stanchezza alcuna, ché, anzi, il baio “oscuro” e “puro” scalpita e non ho finito.

La silloge possiede una qualità iniziatica a partire dalla sua struttura: tre i testi per ogni sezione per un numero complessivo (se si esclude il sigillo che sostituisce il proemio) di 12 (multiplo di tre); quattro le sezioni che alludono ai quattro elementi in cui s’inverbano i quattro componenti fondamentali del mondo fisico: la terra messa in relazione con la bile (terribile tutto ciò che inizia/ con terra e finisce con moto/ e con bile e terreo con ore); l’aria messa in relazione con il sangue, i colori (e disperati i tuffatori arabici in un mar rosso/ in cerca della coralligena); l’acqua, linfa vitale e insieme principio distruttivo (affondamento, annegamento): mentre Paul tornava all’oscuro/ col membro eretto per l’ultima volta/ a succhiare l’ultima acqua del fiume; e, infine il fuoco, anch’esso ambivalente che scalda, illumina e purifica, ma porta anche morte: fuoco con altro fuoco a capo e il sole sul suo capo ma l’altra/ splende e splende sette anni.

Etcetera chiude una trilogia compatta e intensissima (le altre due sillogi sono Persica e Ophris) che imita una sorta di viaggio nei tre regni della natura e della psiche culminante nell’affermazione: la beatitudine supera/ la vocazione alla beatitudine/ non posso essere più precisa di così, senza però che si progetti, in itinere, un termine, un luogo che non sia un Non-luogo, in cui l’avanzamento moltiplica il rischio dell’inespresso e il miracoloso ventaglio delle possibilità, perché, come scrive Celan, tutto è meno di/ quanto è, tutto di più.

recensione di Antonio Devicienti
immagine di Gregory Colbert - Ashes and Snow

Balene di ghiaccio e semi:

sta per aprirsi la quarta edizione del premio di poesia per i giovani La Balena di Ghiaccio o, come viene chiamata con bella metafora, il “IV seme”; si tratta di un’iniziativa complessa e molto, molto interessante: l’ideatrice e animatrice, la poetessa di Capo d’Orlando Maria Grazia Insinga, è partita tre anni fa, mi sembra, da due idee concomitanti: queste lungo la costa nord-orientale della Sicilia sono le terre di Basilio Reale (cui il Premio è intitolato ispirandosi al titolo della raccolta complessiva delle sue poesie pubblicate da Nino Aragno nel 2000), di Vincenzo Consolo, di Lucio Piccolo di Calanovella e del cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di Stefano D’Arrigo, di Bartolo Cattafi, di Emilio Isgrò (il quale, tra l’altro, presiede la giuria del premio e, ricordo, è autore di diversi lavori dedicati al tema e al simbolo del “seme d’arancia”) – e queste sono terre (e mari) che devono continuare a essere fecondi di pensiero e di arte: e Maria Grazia, che è anche insegnante di pianoforte e che crede nel talento dei giovani e dei giovanissimi, da poetessa ha pensato alla metafora dei “semi” che vanno allocati nel terreno, curati e amati perché possano germogliare e fruttificare; è così che, prima di arrivare al concorso vero e proprio, a Capo d’Orlando si svolgono dei seminari-laboratori in cui i ragazzi degli Istituti superiori della città lavorano su testi editi o inediti dei poeti invitati a offrire loro tali testi; ogni seminario ha al suo centro un “archetipo”, cioè una parola-concetto-metafora-immagine intorno alla quale devono ruotare i testi dei poeti invitati a partecipare e, quindi, l’attività laboratoriale dei ragazzi.

Nei mesi primaverili durante i quali si svolgono i laboratori ci sono anche altre iniziative collegate (letture di poesie, un concorso fotografico, incontri), il tutto con il sostegno dell’Assessorato alla Cultura di Capo d’Orlando e dello Spazio Laboratorio Orlando Contemporaneo. Mi scuso per la cosa, ma mi preme tantissimo mettere in evidenza quello che mi appare come il significato anche politico di quest’evento: in una polis qual è quella italiana del Sud depredata di tante giovani menti le quali o cedono alla violenza delle numerose realtà criminali o emigrano o, pur restando, riescono a trovare davvero poco spazio, una polis in cui si perpetua un qual certo fatalismo e una diffusa rassegnazione, nella quale sono sempre meno le figure intellettuali capaci d’esercitare una vigilanza critica, fare appello ai giovani delle scuole superiori, proporre loro di collaborare a laboratori di poesia significa invitarli a compiere un atto eretico e gratuito (grande bestemmia, questa della gratuità, dentro un sistema economico basato esclusivamente sul profitto e sull’imperativo secondo cui qualunque cosa si dica o si faccia debba “servire”, avere uno scopo economico – da qui la sciagurata affermazione secondo la quale con la cultura “non si mangia” e da qui la domanda retorica a che cosa serva la poesia, perpetuando nel contempo lo sprezzante stereotipo del poeta scollegato dalla realtà, morto di fame e con la testa tra le nuvole, inutile a sé e alla sua povera famiglia).

I laboratori di scrittura creativa si propongono, invece, come momenti d’incontro e di riflessione, di creazione e di felice libertà in cui il giovane cittadino vede ampliarsi sempre di più i propri orizzonti di pensiero: ecco, in questi nostri bui anni si stanno proprio ignorando i livelli più alti che può raggiungere la mente umana quando attinge al massimo di gioia e di libertà tramite l’esercizio comunitario delle discipline artistiche – si persuade la gran parte delle persone che ben altrove stia la felicità, ma l’impoverimento psicologico, culturale, umano in atto è fin troppo evidente. Questi ragazzi hanno allora la possibilità, in uno dei cuori paesaggisticamente più splendidi del nostro Sud e contemporaneamente difficile dal punto di vista sociale ed economico, di ripensare sé stessi liberi da condizionamenti e da paure. E le loro menti fertili, creatrici, entusiaste vengono alla luce, rispondono creando. Impensabile la polis senza gli atti creatori delle diverse arti, e infatti venendo meno arte, cultura e istruzione la polis si disgrega, diventa un rancoroso convivere di estranei, inclini all’intolleranza e al razzismo.

Leporelli:

lo scorso anno il Premio è stato vinto da Federica Margherita Corpina, la quale ha avuto la possibilità di pubblicare i suoi testi con la casa editrice Fiorina di Giovanni Fassio: ne è nato un bellissimo “leporello”, vale a dire un volume stampato in digitale su carta fine art e in collaborazione con WestEgg, le cui pagine vengono ripiegate a mano a mo’ di soffietto (simile a quello dal quale Leporello legge l’elenco delle imprese amorose del suo padrone) – ogni volume viene firmato e datato sia dall’editore che dall’autore. In questo caso, oltre che i testi di Federica, nel volumetto sono presenti le opere grafiche di Greta Piazza, Salvatore Emanuele, Michaela Pinto, Gabriele Letizia, Nina Ricciardi, Antonella Maura Tascone, tutti studenti del Liceo Artistico “Lucio Piccolo” selezionati dalla giuria del Premio e che si sono ispirati ai testi di Corpina – chiude l’opera un breve, emozionante scritto di Maria Grazia Insinga che molto bene illustra senso e ragioni del volume.

Ora mi soffermerò brevemente a commentare quest’opera prima di Federica Margherita Corpina intitolata Per fuoco non per tempo. Quello che colpisce nel libro è la maturità espressiva: a diciotto anni è forse (forse) più probabile essere vittime dei luoghi comuni del “poetichese” e delle relative, usurate, immagini e metafore; Federica, invece, lavora sulla lingua, ne comprende subito la centralità e il valore decisivo, ne usa l’incandescenza e la capacità di abbattere i luoghi comuni, d’inventare inaudite virate di senso; oppure è vero anche che, a diciotto anni, si è ancora vicini alla forza sorgiva del linguaggio, per quanto abbia letto e studiato la mente conserva ancora una verginità nei confronti della lingua e del mondo che le consente, con genio da faber e da demiurgo, di aprire la lingua a paesaggi e sensi inediti.

“Questo bianco divora / a volte anonima mi sfido / a inventare una forma”: ecco, questi tre versi d’apertura del libro posseggono una compiutezza e una forza d’enunciato che non lasciano spazio a dubbi: chi scrive così rifiuta estetismi, sentimentalismi, ovvietà – chi scrive così, avendo scelto di tematizzare il sé stessa che diventa donna traverso il prendere coscienza sia del proprio corpo che del rapporto tra questo medesimo corpo e il mondo (tema rischioso, molto battuto e divenuto ormai luogo comune, oggetto di molti rifacimenti “alla Plath”, alla “Sexton”, “alla Pizarnik”), chi scrive così, dicevo, ha già preso le distanze da tali cascami e si è conquistata una propria voce che già appare sicura, estranea a psicologismi e a sentimentalismi. La poesia di Federica Margherita Corpina si struttura per dense immagini e per accostamenti delle stesse che sono accenni e allusioni, per cui tocca al lettore colmare il non detto o il sottinteso.

E allora, al termine di un testo meravigliante per salda costruzione e invenzione metaforica (l’uccellino che impara a volare e per il quale il nido è contemporaneamente luogo da cui allontanarsi e al quale ritornare – ma mi scuso perché quanto ho appena detto non rende affatto ragione della bellezza della composizione la cui forza è nella costruzione linguistica e sintattica, nella fortissima allusività del detto e anche, contemporaneamente, del taciuto) leggiamo: “l’aerodinamica umana / aspira sempre alla magia” ch’è magia dell’essere venuti alla luce del mondo e del conoscere quel mondo, con trepidazioni, incertezze e slanci.

Pelle, ossa, cartilagini (non a caso anche titoli di tre delle cinque sezioni del libro) sono la materia corporea tramite la quale l’io conosce sé e il mondo, ma anche immagini mentali del transitare da parte del corpo verso la maturità, del suo sentirsi attratto o respinto dal mondo – si potrebbe pensare a Paul Celan quando isola un organo del corpo umano (l’occhio, la faringe, il polmone) e ne fa protagonisti assoluti, agenti del e nel testo; sottolineo poi il persuasivo dialogo con le tavole grafiche, delle quali protagonista è sempre il corpo (femminile), carico talvolta di angoscia, talaltra di slancio alla maternità, oppure di erotismo, oppure fluttuante in un sonno che non è allontanamento dalla realtà, ma attingimento di un sovrappiù di realtà e di coscienza.

E il titolo del libro deriva da versi che sanno dire, nel medesimo tempo, l’uguale passione che sono il vivere e lo scrivere, passione figliata dal fuoco e al fuoco destinata (Federica è figlia d’una terra di vulcani, discende dalla sapienza di Empedocle agrigentino, ma anche da un plurimillenario culto dei morti che, sempre, è in rapporto dialettico col culto della vita – cenere/fuoco): “scava lenta la cenere / crematemi torno polvere / per fuoco non per tempo”. È un andirivieni tra sonno e veglia, tra pre-nascita e nascita, tra vita e morte, tra il continente dell’infanzia e quello, nuovissimo, della maturità fisica e psicologica e, trattandosi d’un andirivieni, la lingua è, appunto, mobile e allusiva, sempre tesa e nervosa, com’è giusto che sia nelle fasi di passaggio e di slancio, di apertura e di pudico, ma fermo coraggio, com’è legittimo che sia la scrittura di chi, ogni giorno, ha davanti agli occhi e intorno a sé il “mobile universo di folate”, l’orizzonte marino e le Eolie (isole del vento e dei vulcani, ancora) in lontananza.

Intervista di Grazia Calanna
Apparsa nella rubrica Ridenti e Fuggitivi del quotidiano La Sicilia 11 febbraio 2018

La parte oscura della nostra parola «è il nostro serbatoio di realtà, la nostra fonte. Ed essa ci è accessibile perché – la poesia è questo – affiora in ogni parola. Ascoltare una parola e non una frase, è, ancora per un istante, intenderla prima che vi si mostrino le articolazioni del concetto. Una vita si apre».

La riflessione di Yves Bonnefoy ci introduce alla lettura di “Etcetera”, sempiterno leporello animato dai versi polisemici (e polifonici) di Maria Grazia Insinga; quattro successioni (“Il mostro”, “La dea”, “La bestia”, “L’avvelenatrice”) e un “Sigillo” acquerellati con grazia da Alessadra Varbella, per le edizioni “Fiorina”.
 

Uno spazio dicotomico


Leggendo cogliamo l’invito: trascendere la parola immergendosi nelle profondità di uno spazio dicotomico, immaginario e realissimo, in cui «il possibile non diventa impossibile / l’impossibile invece è già una possibilità». Uno spazio in cui, come scrive Rosa Pierno nella noterella, «l’abbattimento delle cesure tra sacro e profano, bestiale e umano, libera le reliquie e i simboli prima imprigionati nelle classificazioni metafisiche; e in tal modo coralli, cuori, seni, mostri non trovano più posizione nel paesaggio personale».

Un testo coltissimo, che, come “Persica” e il fiammante “Ophrys” con i quali costituisce unità, fa insorgere l’esperienza esistenziale, simbolizzandola insieme alla dimensione della storia collettiva, «la beatitudine supera / la vocazione alla beatitudine / non posso essere più precisa di così / mentre Paul tornava all’oscuro / […] / venivo alla luce a cosa di preciso / non sa dire non c’è fine se non “da finire”/ non c’è inizio non c’è inizio da iniziare». Un testo, “Etcetera”, che, dal titolo all’ultimo verso («e non ho finito»), ci smembra in una dimensione di «sempiterno fararsi».

Esistono luoghi o momenti ideali per scrivere?

«Scrivo dappertutto con un disordine lavico e forsennato. E mi stupisce, alla fine di un percorso in rime, scoprire un ordine inconscio, mentale. Comprendo solamente che questo disordine corrisponde a un superiore ordine, misterioso non intellegibile, un palinsesto musicale. Il momento ideale è quando mi sembra di riuscire meglio a comunicare in versi questo (dis)ordine. E in genere questo momento ideale corrisponde a uno stato di scabra grazia o di ruvida poesia».

Chi “rileggerebbe” e per quali ragioni?

«Rileggerei Bachmann tra le ondine della Boemia anche quando il mare non c’è; e Achmatova tutte le volte che è necessario zittire i potenti. Rileggerei Celan quando non sappiamo più dirci cose oscure; e la Rosselli che ancora cade, cade e non finisce di cadere assieme a noi. E poi Rilke, quando amiamo qualcosa che non c’è, un unicorno o una bestia rara non ancora catalogata dal pensiero; e poi Reale perché abbiamo sempre bisogno di un’isola o Cattafi quando scopriamo che lo scopo dell’isola è cadere in tentazione. E le sirene? Leggerei Busacca, Stecher, Costa. E Insana, Jolanda, insana pure nel nome. Infine, leggerei Bach ogni giorno, tra un silenzio e l’altro e nessun silenzio, quando la poesia viene meno e neanche io mi sento tanto bene».

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