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Franca Alaimo legge Etcetera di Maria Grazia Insinga

Recensione di Franca Alaimo
articolo originale su Un posto di vacanza

Inusuale quanto decisamente funzionale appare la veste editoriale di Etcetera dell’autrice Maria Grazia Insinga, se è vero che l’accostamento verbale-pittorico dei segni, la qualità della carta e la struttura a fisarmonica del libro (così vuoto e silenzioso sul retro assolutamente bianco, forse in attesa, come dice l’ultimo verso dell’ultimo testo e non ho finito di altri segni, o forse soltanto alternativa di purezza), servono a confezionare la scena cartacea più adatta al raffinato sperimentalismo di una scrittura, in cui ricchezza culturale, sapienza musicale, elementi biografici determinano un effetto di continuità pur all’interno di un’instancabile variazione. Tutto questo sollecita, insieme al godimento intellettuale, quello della vista e del tatto, coinvolti anch’essi in un’elaborazione simbolica a tutto campo.

E, dunque, i delicati acquarelli di Alessandra Varbella raffiguranti una serie di conchiglie, non vanno ammirati come semplici presenze “ornative”, ma come portatori di altri sensi ai sensi già veicolati dalle parole poetiche, le quali pure, in una sorta di imitazione delle trasparenze cromatiche di quelli, tessono un mobilissimo acquatico fluire di suoni, spesso germinanti l’uno dall’altro come si legge in: terribile tutto ciò che inizia/ con terra e finisce con moto / e con bile e terreo con ore, dove i corpi verbali integri di terrore, terribile, terremoto vengono scomposti in terreo, bile, moto, tutti attinenti all’orrifico, al monstrum, ma anche all’angoscia dell’eros. 

La frammentazione del corpo-lingua corrisponde a quello del corpo fisico, ché le sue parti (seni, gambe, testa, cuori) si spargono nei versi distruggendo una unità, un kosmos di ordine e bellezza obbediente al criterio della reciproca funzionalità e insieme acquisendo una nuova, autonoma significazione, con un rimando, per analogia figurativa e metaforica, al mito orfico dello smembramento del dio Dioniso. Con esso si istituiva, infatti, un processo trasmutativo grazie al quale l’atto separativo della coscienza normale diventa necessario per la sua reintegrazione e trasfigurazione, intesa, quest’ultima, come capacità di andare oltre le sue figure. Dioniso, che secondo Socrate è il dio che ispira i poeti, è, inoltre, portatore di furor e di traboccamento anche amoroso.

Né va dimenticato, per tornare alla simbologia delle conchiglie, straordinarie concrezioni del tempo (così come le parole e i miti) e creature acquatiche custodi del morbido della carne, che esse alludono agli organi genitali, soprattutto alla vulva e, dunque, si collegano al concetto di procreazione e fertilità. Avanzando nel territorio della realtà, come in quello dell’irrealtà, il linguaggio descrive contemporaneamente l’impossibilità del possibile e il possibile dell’impossibilità, in una sorta di groviglio inestricabile, che accosta il nitore dei dettagli alla visionarietà, creando un enigmatico teatro calcato da uomini che diventano bestie (capovolgendo il significato escatologico dell’incarnazione cristica e la centralità di un umano sempre più corrotto), avvelenatrici, divinità incapaci di compassione, tuffatori, personaggi della cultura come Idrisi e Paul Celan, giumente (che salgono e scendono scale a spirale al posto degli angeli della scala di Giobbe) e animali fantastici, come l’unicorno.

A esso rimanda l‘exergo da Rainer Maria Rilke, in cui la chiave di lettura, in rapporto a questo libro della Insinga, va colto nella capacità di rendere presente e reale l’assente, il quale egualmente è stato (…) amato, tentando l’innesto di una situazione biografica nel sistema mitico: così va letto il testo: la divinità non può toccare terra/ sono il portatore consacrato/ sollevo l’altra ridotta a divinità/ e non do mai il cambio a nessuno// il suo tappeto è interdetto ai morti/ e ai non l’altra siede su una pelle/ uno scranno la mia schiena a pezzi/ carponi i suoi piedi sui miei piedi che evoca una raffigurazione cinese della dea Kuan-yin, che troneggia su un unicorno disteso. All’eros rimanda comunque il corno dell’animale, simbolo bipolare, unificatore dell’elemento maschile, in quanto penetrante e fallico, e di quello femminile, in quanto, se capovolto, mostra la sua cavità. Al primo alludono i versi: mentre Paul tornava all’oscuro/ col membro eretto per l’ultima volta/ a succhiare l’ultima acqua dell’ultimo fiume, in cui Paul è lo scrittore Celan.

A questo proposito così scrive Antonio Devicienti: “Paul è l’unicorno che si lascia affondare nell’acqua-madre, il portatore del verbo che, però, non addiviene a una risoluzione positiva della propria vicenda (l’incarnazione che salva il mondo), ma, al contrario, torna all’indistinto dove principio e fine si confondono e sono inidentificabili.” Ma l’unicorno è anche metafora della poesia, in quanto, come l’animale si ammanta, all’interno delle varie civiltà che lo hanno accolto nel loro immaginario, di qualità e poteri opposti (distruttori e/o riparatori), così essa è chiamata a decodificare, destrutturare, desacralizzare per poi ri-dire, ri-fondare, ri-sacralizzare ciò che vive nel reale e nell’immaginario: è quanto accade nei versi prima citati, che attingono a un mito paleocristiano, secondo il quale l’unicorno entra in un lago avvelenato e, tracciando il segno della croce con il corno, lo purifica.

Solo che, nell’appropriarsi del mito, la Insinga lo sveste di ogni significazione religiosa per sottometterlo alle ragioni laiche della Storia e della Poesia ed all’insondabile mistero della Morte: nelle acque entra un uomo (uno scrittore nello specifico, che trovò la morte per acqua) e non l’unicorno-Cristo; e tutto scivola in una indeterminatezza che non sa dire, se non nell’impossibilità del dire, con chiaro riferimento alle vicende biografiche e letterarie di Celan, di certo uno dei più amati riferimenti dell’autrice, se è vero che, come lo scrittore ebreo-tedesco, anche lei tenta (ma senza ricorrere alla facilità della rima riparatrice) il ritmo della musica nei suoi testi poetici. E così torniamo a citare il breve testo conclusivo: Sigillo, concepito come una sorta di controcanto ai versi di Thibault de Champagne (poeta molto stimato dallo stesso Dante), che probabilmente vuole sottolineare il lungo cammino della poesia, dal duecento ad oggi: un viaggio senza sosta nelle parole, e senza stanchezza alcuna, ché, anzi, il baio “oscuro” e “puro” scalpita e non ho finito.

La silloge possiede una qualità iniziatica a partire dalla sua struttura: tre i testi per ogni sezione per un numero complessivo (se si esclude il sigillo che sostituisce il proemio) di 12 (multiplo di tre); quattro le sezioni che alludono ai quattro elementi in cui s’inverbano i quattro componenti fondamentali del mondo fisico: la terra messa in relazione con la bile (terribile tutto ciò che inizia/ con terra e finisce con moto/ e con bile e terreo con ore); l’aria messa in relazione con il sangue, i colori (e disperati i tuffatori arabici in un mar rosso/ in cerca della coralligena); l’acqua, linfa vitale e insieme principio distruttivo (affondamento, annegamento): mentre Paul tornava all’oscuro/ col membro eretto per l’ultima volta/ a succhiare l’ultima acqua del fiume; e, infine il fuoco, anch’esso ambivalente che scalda, illumina e purifica, ma porta anche morte: fuoco con altro fuoco a capo e il sole sul suo capo ma l’altra/ splende e splende sette anni.

Etcetera chiude una trilogia compatta e intensissima (le altre due sillogi sono Persica e Ophris) che imita una sorta di viaggio nei tre regni della natura e della psiche culminante nell’affermazione: la beatitudine supera/ la vocazione alla beatitudine/ non posso essere più precisa di così, senza però che si progetti, in itinere, un termine, un luogo che non sia un Non-luogo, in cui l’avanzamento moltiplica il rischio dell’inespresso e il miracoloso ventaglio delle possibilità, perché, come scrive Celan, tutto è meno di/ quanto è, tutto di più.

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