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"Fine di una madre" intervista con l'autrice

Trovarsi improvvisamente ad assistere la propria madre, ad accompagnarla verso la fine, rielaborare il proprio ruolo di figlia, affrontare l'immagine della propria vecchiaia, dialogare con il mondo dei medici, rimanere disarmata di fronte alle parole e ai gesti semplici quanto saggi di una badante straniera. In questa intervista Paola Pastacaldi ci racconta che cosa ha significato per lei scrivere "Fine di una madre", il suo ultimo libro.

Paola, lei è autrice di romanzi ispirati alle memorie familiari, in particolare legate al passato coloniale dell’Italia. Torna ora con un libro in qualche modo sempre legato alla famiglia ma — se possiamo dire — molto più intimo. Si tratta del rapporto madre e figlia. Si tratta di accompagnamento alla morte.

Come è nato “Fine di una madre”? Ha iniziato a scrivere mentre viveva gli ultimi giorni di sua madre oppure dopo, come un modo per dare una collocazione, un senso a ciò che le era accaduto?

Ho iniziato a studiare e scrivere mentre mia madre era ammalata. Volevo aiutare me stessa a superare lo choc che ho avuto di fronte ad una madre autarchica — che conosceva benissimo l’uso del potere, tanto da intimidirmi tutta la vita — che all’improvviso non avrebbe più potuto camminare né tantomeno comandare.

All’inizio desideravo scrivere qualcosa che aiutasse in modo molto concreto chi si fosse trovato di fronte ad un genitore anziano. Per farlo ho chiacchierato a lungo con medici geriatri, assistenti sociali, psicologi. Alla fine tutti mi hanno aiutata a comprendere una cosa sola: accompagnare mia madre era una occasione unica per ritrovare le mie origini, per capire chi ero io e chi volevo diventare.

Non deve essere stato semplice descrivere i dettagli — anche fisici — del rapporto con sua madre in quei giorni così difficili…

Ero molto dibattuta sul raccontare o meno il deterioramento fisico. Ma poi, da cronista, ho ritenuto fosse parte integrante di questa storia, che peraltro è intrisa di poesia, ricca di sfaccettature narrative legate al Veneto di 60 anni fa, all’Eritrea coloniale e all’Ucraina del passato.

A pagina 9 lei scrive "Questo diario è il mio salvacondotto contro la vecchiaia o almeno spero che lo diventi.”. Quanto è stato “terapeutico" scrivere questo libro? È cambiato il suo modo di guardare alla vecchiaia?

Ho messo in questo diario tutta la mia personale paura, che era quasi terrore. E così l’ho blandita a fianco di mia madre. E il regalo che ho ricevuto è stato grandioso: ho scoperto che la vecchiaia è anche una invenzione sociale. La verità è molto diversa. La società nutre solo la nostra paura ed è negazionista. Cancella nei fatti la dignità dell’essere umano, della sua storia. E non aiuta a vivere la vecchiaia serenamente. 

Vorrei attraverso questo libro creare un dibattito su questo tema: gli anziani non vanno abbandonati nelle case di riposo (anche se confortevoli o lussuose, poco conta), ma nemmeno nelle loro case. Le badanti non possono diventare le uniche vestali della fine dei nostri genitori. Molti anziani muoiono assistiti solo da badanti ucraine, rumene, polacche e africane. Al loro fianco devono stare i figli, i parenti, gli amici, i vicini di casa, arrivo a dire la società stessa. 

La legge italiana difende l’anziano dall’abbandono messo in atto da figli fragili, paurosi, vigliacchi, o interessati solo all’eredità, a volte carichi di pericoloso e inutile astio. L’anziano nella fase più delicata della sua vita va accudito e lasciato nella sua casa, dove ha gli oggetti che lo rassicurano, perché alla fine tutti hanno paura.

È tempo che la medicina, e con essa il medico di base, attuino il principio che un anziano non guarirà e che insistere spesso significa accanirsi e farlo soffrire. 

Il ruolo del medico di base — cui oggi i più hanno abdicato — dovrebbe essere di accompagnamento "morale" verso l’ultimo passo dell’anziano e dei familiari. 

Nel raccontare una storia così intima, pur non trattandoli, lei porta alla luce una serie di temi di rilevanza sociale legati al mondo degli anziani, che coinvolgono da decenni molte famiglie Italiane. Medicalizzazione, accanimento terapeutico, RSA, il rapporto con le badanti straniere. In una società che è sempre più anziana e che allo stesso tempo tenta di combattere la vecchiaia in tutti i modi, come si augura che cambino le prospettive nei riguardi del fine vita? 

Un anziano è come un albero secolare, non importa da dove viene, se è ancora utile. Se produce ancora o se è demente. Nella sua corteccia è incisa una storia che è l’essenza della nostra stessa vita. La possiamo e dobbiamo respirare e immagazzinare prima della sua morte.

Oltre alla fatica, a volte estenuante, dell’assistenza, l’anziano ci permette di ricongiungerci alla nostra storia. L’anziano è l’essenziale ponte verso la nostra maturazione finale.

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