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Intervista a Maria Grazia Insinga a cura di Rosa Pierno

Articolo di Rosa Pierno
articolo originale su versanteripido.it - Fotografia di Ariane Deschamps

Maria Grazia Insinga

[dropcap style=" "]M[/dropcap]aria Grazia Insinga, dopo la laurea in Lettere moderne, il diploma in Conservatorio e in Accademia si dedica all’attività concertistica e all’insegnamento nelle scuole secondarie. Nell’ambito degli studi musicologici censisce, trascrive e analizza i manoscritti musicali inediti del poeta Lucio Piccolo. Suona in un duo pianistico ed è docente di Pianoforte presso l’Istituto “G. Verga” di Acquedolci (Messina). Nel 2014 la raccolta “La porta meta fisica” è segnalata al Premio Montano. Sempre nello stesso anno, con il sostegno dell’Assessorato ai Beni Culturali di Capo d’Orlando, idea il Premio di poesia per i giovani “Basilio Reale” La Balena di ghiaccio giunto alla terza edizione e presieduto da Emilio Isgrò. Alcuni testi si trovano in riviste e antologie: “Il rumore delle parole” (Edilet, 2014) a cura di Giorgio Linguaglossa; “Blanc de ta nuque” Vol. II (Le voci della luna, 2016) a cura di Stefano Guglielmin; “Umana, troppo umana” (Aragno, 2016) a cura di Fabrizio Cavallaro e Alessandro Fo; “Punto. Almanacco di poesia” (puntoacapo, 2017) a cura di Mauro Ferrari; “Osiris Poetry” n. 84 (Andrea and Robert Moorhead, 2017). Nel 2015 vince il concorso Opera prima, iniziativa editoriale diretta da Flavio Ermini e a cura di Poesia2punto0, con la silloge “Persica” (Anterem/Cierre grafica). Nel 2016 entra a far parte del consiglio editoriale di Opera prima. Nel 2016 la raccolta “Ophrys” è finalista alla XXX edizione del Premio Lorenzo Montano. Nel 2017 pubblica il leporello in versi “Etcetera” (Fiorina edizioni) e la raccolta “Ophrys” (Anterem). Cura la collana di poesia Isolario per Fiorina.

Il registro della tua poesia si svolge sapientemente tra aulico livello e gergo popolare, disegnando una sorta di recinto che accoglie sacro e profano. La favola, l’oblio, con il loro portato ricorsivo, delineano una scrittura potente. Parlaci di questa che noi leggiamo come forza impetuosa.

Spero si tratti di carbone dal Don o nafta di Bakù. «Dateci nuove forme», dice Majakovskij.

“Etcetera” (Fiorina edizioni, 2017) è un dialogo privatissimo con l’altra, un dialogo in cui la bestia degenera in uomo e l’uomo è relegato a divinità. In questo recinto l’umanità nella direzione dell’umanità non pare faccia passi avanti. Solleviamo l’umano a divino fino a perdere il senso del reale: questo divino nasce da una natura evidentemente snaturata. E restiamo privi di coordinate in un mondo, per fortuna, da rifare.

Sin dalla dedica – A Nike e a Nike – “Ophrys” (Anterem, 2017) predilige figure umane divinizzate per via di roghi e decapitazioni; ed elegge pure Apollo, il cui torso rilkiano, nella moncanza, conserva l’armonia dell’unità, del tutto.

In fondo, l’ossessione è sempre quella della forma o del deforme: il morso della “Persica” (Anterem/Cierre grafica, 2015), in quella moncanza, restituisce il piacere del tempo primo dove nulla è discretizzato. Forse, la forza impetuosa viene da questo nulla, da ciò che manca, dalle soglie dell’impronunciabile e da nuove forme inevitabilmente venute fuori da una versificazione deforme. Forse, l’impeto muove da questo corpo sezionato – in “Ophrys” e in “Etcetera” – che è anche il corpo della scrittura, se la parola è carne, la poesia corpo, un piede destro e duplex cor in unico petto.

[…]

il resto mancante
mancanti la testa e i piedi
e tutto il resto mancante
che testa e piedi divide
cetera desunt… cetera desunt…

[…]

I versi sono di Bartolo Cattafi; la musica di Lera Auerbach: “Quartetto per archi n.3”, VIII Movimento.

Il dialogo è privatissimo, dicevo, e inanella di tanto in tanto termini dialettali e colloquiali; ma il registro, evidentemente, risulta aulico tessendo le preziose rotte dei corallai tra acqua e terra e aria nelle favolose carte di Idrisi o nei bestiari quasi medievali popolati da unicorni, mostri, dee e versiere. Un linguista userebbe la locuzione latina vox media: ogni parola si determina in buona o cattiva, gergale o aulica, bella o brutta a seconda del contesto e della spezzatura del verso. Si ragioni su fortuna, spes, tempestas, fármakon, monstrum. E il mostro è veicolo ora di orrore ora di meraviglia nella mia poetica. È da questa variabilità del livello di lettura, da questi palinsesti identitari, da questo sezionare tutto che discende la forza impetuosa, credo. E dall’ibridismo, dai grilli di Hieronymus Bosch che popolano le mie percezioni, dalle druse di Jaroslav Stuchlik, dalla poesia-baule, da un piede destro e duplex cor in unico petto, etcetera, etcetera.

La tua poesia è ossimorica, sorprendente, crudamente cesellata, simbolicamente abitata, e certe reliquie che tu poni sulla pagina richiedono prepotentemente di riprendere sensuosa vita, tramite decifrazione. Ma è possibile farlo? O ci troviamo invece in una poetica dell’enigma?

Un sapere completo non ci è dato mai. Per quanto ci sforziamo di tenere sotto controllo tutti i dettagli di un quadro, inevitabilmente qualcuno sfuggirà. In poesia i dettagli sono troppi, le variabili impreviste. L’eccessiva chiarezza del quadro abbaglia, l’eccessiva oscurità annoia il fruitore. Il verso è un ricettacolo di legami di burro destinati a sciogliersi, di sinestetiche intuizioni, di estetiche à rebours. La poesia è un progetto di fuga. Fuga dal controllo di ogni dettaglio. Liberare, dunque, i dettagli dall’abbaglio e dalla noia.

Il lettore è, in effetti, quel dettaglio che prende fuoco, mentre il resto dell’opera rimane nell’oscurità. Le parole sono figlie del buio. Talvolta una parola sfugge alla cancellazione e si incendia. O meglio, il lettore stesso è quella parola. Tutti gli altri dettagli tornano nel buio, tornano a progettare una fuga. A ogni lettura un dettaglio è salvo, si illumina. A ogni lettura la poesia è sospesa tra le due soglie: luce ombra, vita morte. La forma, le simmetrie rappresentano le più efficaci vie di fuga.

Il dettaglio certifica la nostra esistenza in vita: è il fiato sul vetro che ci rende visibili; il tassello che ricostruisce, decodificandola, la storia individuale. Come fruitori collezioniamo dettagli, li liberiamo dal testo per creare un altro testo tutto nostro «usando lo sguardo come coltello», direbbe Antonella Anedda.

Tra le mie reliquie, i mostri, la natura che ricreo, tra pesche e orchidee vivo come in una infinità provvisoria e arredata ora in forma di deserto ora in forma di casa. Per questo motivo, non penso che la mia sia una poetica dell’enigma irrisolvibile. La polisemia concede l’accesso a chiavi di lettura personali, a forme aperte ma imprescindibili dal contesto.

In Persica, ad esempio, c’è una moltiplicazione dell’io e nell’incontro tra diversi significati, tra diversi nuclei germinali, cerca un significato nuovo, una cellula in fasce che tenta attraverso accumuli semantici di mettere a repentaglio la morte. Così, “Partenogenesi”, primo testo della raccolta, annuncia una nascita. O più nascite? A chiudere la silloge, “Salmo” che celebra la nullificazione di tutte le identità e il loro disfacimento in schiuma forse per evitare che la storia personale di chi scrive si imponga su quella del lettore, anche a costo di una cancellazione, di una sparizione. Può darsi che il vero sé si manifesti proprio in questa dimensione di solitudine dove non esiste dualità, separazione tra soggetto e oggetto. Ogni parola è, quindi, una chiave polisemica, ogni dettaglio è un indizio legato agli altri ma che vive di luce propria. Ogni parola è una goccia in un mare di indizi.

Yves Bonnefoy scrive in “L’alleanza tra la poesia e la musica”: «[…] nel linguaggio c’è un rumore di pioggia». E anche:

«Questo rumore è l’Uno del mondo che si apre, e noi, che ascoltiamo le gocce d’acqua che si susseguono in modo aleatorio, ecco che ci troviamo sull’orlo dell’abisso, proviamo ciò che potrebbe essere il cadervi dentro, siamo allo stesso tempo il particolare, completamente ripiegato sul proprio istante e sul proprio luogo, e questa unità, ora quasi vissuta».

L’oscillante gioco fra colori assolati, intensamente profumati, e figure ritagliate e come smaltate ci fanno pensare anche alla pittura bizantina oltre che a certi contrasti tipici del mediterraneo, netti e drammatici. E il pensiero appare profondamente annidato nei dettagli visivi e olfattivi. Qual è il tuo rapporto con la filosofia?

La poesia non è solo “la” poesia ma una identità che rinvia a piani di realtà diversi, a un palinsesto identitario. Si tenta di integrare questa identità – i suoi dettagli assolati, profumati, smaltati, netti e drammatici – nel tutto; si tenta un ritorno alla stessa frequenza del mondo. Ma la poesia è una nostografia dell’anima al confine di ogni esperienza di percezione e tornare non è possibile. Non possiamo inserire la poesia nel conosciuto, né il conosciuto nella poesia perché questo tutto è solo ciò che noi conosciamo mentre la poesia tende ad andare oltre, verso ciò che non si conosce, verso l’alterità, l’esteriorità, il fuori. Anche quando questo fuori è dentro di noi, a costo di trovare questa alterità solamente dentro di noi.

Integrare il tutto nella poesia è inutile per quanto ci si sforzi di rendere universale il verso. È, probabilmente, questa impossibilità di far coincidere l’identità con l’intero a darci l’impressione di mancare bataillanamente sempre la poesia.

Il linguaggio della poesia disobbedisce alla poesia stessa e ai nostri goffi tentativi di collegarlo ad altri linguaggi: l’arte, la filosofia, etcetera. La poesia è contiguità. Dobbiamo rassegnarci. L’imprecisione del linguaggio poetico è sostanza del segreto e insieme l’unico canale verso l’immediatezza dell’intuizione. Né immediatezza né mediazione, né chiarezza né oscurità, né vita né morte: la poesia, sospesa tra due soglie, si pone come interruzione, finzione di una piccola morte, il tempo dell’istante. Questa discontinuità è ripetuta dal poeta; e non si potrebbe ripetere l’atto poetico se l’atto poetico non si ponesse come interruzione, un godimento da reiterare kierkegaardianamente.

Blanchot radicalizza Hegel quando sostiene che «l’ingresso nel linguaggio comporta una perdita»: Je dis: une fleur! dico, ma qui non c’è un fiore. Il linguaggio è perdita ma è anche restituzione. Il fiore è l’alterità, l’esteriorità di cui noi incessantemente rievochiamo l’assenza. Il fiore è l’assenza del fiore, la poesia è l’assenza mallarmeiana della poesia: sembra una tesi suicidaria ma è un anelito, invece, verso l’ignoto. La poesia è un’esperienza limite.

Sappiamo che sei una musicista, che sei diplomata al Conservatorio. Come vedi la relazione tra le due sfere: pensare la musica, pensare la parola?

Le poème – cette hésitation prolongée entre le son et le sens.
Paul Valéry

Dovremmo forse restituire voce al segno ch’era servito un attimo prima a incidere – o bloccare – il flusso vivo del pensiero, a eternarlo; a discretizzare, nominalizzare il continuum primigenio. Il silenzio plumbeo delle sirene soggioga l’inconscio appena liberato in poesia, lo riconduce all’ordinamento parassitario della scrittura e a sé stesso, tout court, solo raffreddato. La lettura esofasica corrisponde quasi a un parto sonico in cui la ricezione consente di riconoscere il suono materno, riconciliarsi a esso.

Credo sia il ritorno periodico degli accenti nel flusso parlante a cullare, a generare un’induzione motoria, quasi una musica di la ‘ncunia dove l’incudine è lingua che batte e sbatte sui caratteri plumbei di un foglio bianco (di ddocu veni a musica!). I poeti sono i Velázquez nella fucina di Vulcano, sono i mitici Dattili, les marteaux sans maître, i creatori della musica nata non dal canto degli uccelli ma dal rumore delle lingue, dei martelli che gli operai «battono armoniosamente in cadenza», scrive D’Alembert.

Immagini, suoni e parole servono a dare ordine e ritmo nell’immaginario della coscienza; rimandano al tempo, al suo fluire; allo spazio, la sua presenza, la sua assenza; all’unità, insomma, che l’io tenta di raggiungere tramite l’opera d’arte nel suo ineluttabile destino di disfacimento.

L’io poetico sta in bilico tra Mosè e Aronne, tra la purezza dell’idea inesprimibile e la parola. Quello della poesia è un linguaggio vero e proprio, metalinguaggio, koinèestesa quanto quella musicale; forma significante le cui strutture presentano somiglianza con la nostra vita spirituale che può così essere colta anche intuitivamente. Non è dunque un linguaggio come il parlato ma può essere considerato lingua metaforica, ibrida con un potere superiore a quella parlata.

Il linguaggio non è sufficiente a cogliere i nostri stati emotivi, non è sufficiente a cogliere i movimenti del corpo e della psiche, a mettere a fuoco l’indicibile, la bellezza nella sua caducità. Il dolore provocato da questa caducità produce l’attesa di una nuova realizzazione della bellezza. La musica e la poesia soddisfano naturalmente questa erotica attesa grazie al rinnovarsi kierkegaardiano dell’ascolto-lettura.

Poesia, dunque, come iniziazione al suono per il tramite corporeo della parola. Il mio bilinguismo poesia-musica si esplica nel gesto sonoro che abbraccia la loro unità melogenetica. Reiterando la lettura ad alta voce le parole perdono il senso di sé per diventare suono, smettono di denotare e iniziano a connotare restituendo nuovi significati come se rinascessero dall’ipnosi esofasica, dal piombo dei caratteri tipografici. Il bergsoniano tempo interiore, la durée réelle, anela così a diventare spazio, reificazione di sé: tempo e spazio «simboli non consumati», scrive Susanne Langer, di una partitura poetica.

Per rompere l’incantesimo che ha trasformato lo spirito in carta e scacciare gli spiriti malefici che si irrigidiscono nel senso rinunciando al suono o che si abbandonano al suono rinunciando al senso, invocherei volentieri lo spirito di Berlioz e il suo coro di demoni de “La damnation de Faust” che intona un testo privo di qualsiasi significato e ricco di armonici: «Has! Irimiru Karabrao! Has! / Has! Has! Méphisto!» Un pandemonio, pura poesia.

Intelligibile e intraducibile allo stesso tempo esattamente come la musica, la poesia proprio per questo rivendica spazio all’oralità, per rinominare il mondo, farlo riapparire dopo la sua scomparsa nel silenzio plumbeo tanto distante dalla strada, ricrearlo nella fucina di una nuova fabbrica illuminata.

La tua attività, ricchissima, nel campo letterario ti vede protagonista di un importante premio per i giovani poeti in Sicilia. Puoi farcelo conoscere meglio?

La Balena di ghiaccio nasce dal desiderio di fare germogliare la poesia contemporanea e il fare poetico tra i giovani e di colmare, seppure in parte, le lacune generate dai ristretti tempi scolastici. Il premio, dunque, è rivolto a studenti della scuola secondaria superiore ed è dedicato al poeta e psicoanalista Basilio Reale. Vissuto tra Capo d’Orlando e Milano, Reale è autore di due saggi: “Sirene siciliane. L’anima esiliata in «Lighea» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa” (Sellerio, 1986; poi Moretti & Vitali, 2001) e “Le macchie di Leonardo” (Moretti & Vitali, 1998); e di diverse raccolte in versi: “Forse il mare” (Schwarz, 1956), “Le quotidiane abitudini” (Rebellato, 1959), “La vita attiva” (1963), “I ricambi” (Mondadori, 1968), “L’esistenza amorosa” (Scheiwiller, 1989), “Travasare il miele” (Scheiwiller, 1996), “La balena di ghiaccio” (Aragno, 2000).

Giunto alla terza edizione e sostenuto dall’Assessorato ai Beni Culturali di Capo d’Orlando, il premio deve molto alla collaborazione dello Spazio LOC Laboratorio Orlando Contemporaneo e alla lungimiranza di un artista, Giacomo Miracola. Deve moltissimo anche a un altro artista, Emilio Isgrò che, in qualità di presidente della giuria, testimonia così la storia bellissima di un’amicizia, quella con il nostro Silo.

Il 2017 è un anno importante. Il III Seme, infatti, consente di fare un primo bilancio di questa avventura e spiega l’essenza del progetto: in tre anni, nell’arco di sei mesi di laboratori, attraverso undici archetipi – Aria, Acqua, Terra, Fuoco, Notte, Sirene, Uccelli, Tigre, Caduta, Conchiglia, Porta – ottantuno partecipanti hanno scritto circa quattrocento componimenti in versi. Il Laboratorio di sperimentazione ha accolto gli studenti di tutte le scuole orlandine secondarie di secondo grado e ha permesso l’incontro con tredici poeti: Franca Alaimo, Roberto Deidier, Enrico De Lea, Sofia Demetrula Rosati, Renato Fiorito, Bianca Garavelli, Stefano Guglielmin, Fernando Lena, Dante Maffia, Valerio Magrelli, Daita Martinez, Margherita Rimi, Patrizia Sardisco. Inoltre, più di quaranta poeti hanno inviato le loro poesie edite e inedite in lettura; alcuni autori hanno spedito video, altri lettere e altri ancora hanno dialogato con i balenotteri via etere. Difficile riuscire a contare, invece, i poeti scelti per approfondire lo studio degli archetipi e delle forme dell’immaginazione, l’imagination materiélle di cui parla il filosofo francese Gaston Bachelard.

Le suggestioni interdisciplinari di musica, letteratura e arte visiva servono a immergere gli allievi in un’atmosfera di volta in volta diversa sulla base del seme-archetipo scelto. Costanti i riferimenti alla poesia classica – curati da Domenica Sindoni – punto di partenza del lungo processo di elaborazione di forme, immagini e concetti che si snoda fino ai nostri giorni. Ed è così che il cosmo razionato dalla scienza e dalla ragione viene montato, rimontato e restituito sotto una luce nuova agli studenti che nel corso dei laboratori sono invitati a comporre in versi. La scrittura poetica è qui intesa come operazione di manipolazione, reinvenzione e comprensione originale della realtà. La motivazione principale della Balena sta, infatti, nell’educazione alla bellezza, medium verso l’unità dell’uomo; e le poesie più belle confluiscono, così, in una antologia cartacea dove le sezioni dedicate a ciascun archetipo sono introdotte visivamente da foto e disegni dei ragazzi stessi.

La spinta infantile alla poesia, insita in ciascuno di noi, può trovare terreno fertile in un contesto – quello siciliano e orlandino in particolare – così vocato alla cultura poetica. Basti pensare a figure come Lucio Piccolo, Bartolo Cattafi, Stefano D’Arrigo, Basilio Reale, Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Costa, Jolanda Insana, Emilio Isgrò. Giusto per citare solo alcuni autori appartenenti al messinese.

Quest’anno, il progetto si è arricchito grazie al coraggio di un editore, Giovanni Fassio, che ha accettato di pubblicare un leporello cetaceo in versi (Fiorina edizioni) scritto dal vincitore del III Seme. Per questo motivo, entro le vacanze di Natale, uscirà il libro a soffietto di una diciottenne talentuosa, Federica Corpina. A impreziosire i versi saranno le opere d’arte realizzate dagli studenti della scuola secondaria superiore e scelte dalla giuria della Balena. Un buono auspicio, insomma, questa Balena. O un sogno: quello di gettare semi d’arancia propizi alla nascita di nuove generazioni di lettori di poesia, di fruitori d’arte.

Da qualche mese dirigi la collana Isolario, nata da una tua idea, con Fiorina edizioni. Qual è l’intento della collana? Che cosa ti proponi?

La collana Isolario nasce marsorridendo tra le schiume e le isole bipennate e liminali all’altezza del sole. Un nicchiarello di carta viva ripiegato a fisarmonica da musiche e «allisciato ancora alla grande calmeria di scirocco», direbbe Stefano D’Arrigo. Isolario si mette ora a soffietto ora a repentaglio sulle vie di acqua e vino – aluntino mamertino malvasia – e sulla scia di sirene e dei loro incantamenti. Ma in special modo in balia del tomasiano terzo sortilegio di Lighea: quello della voce.

La casa editrice di Giovanni Fassio crea leporelli d’arte e poesia a Varzi, nell’Oltrepò Pavese. Il leporello, ovvero il libro pieghevole, il libro zig-zag o concertina prende il nome dal servitore del Don Giovanni di Mozart, che portava sempre con sé un catalogo piegato a fisarmonica con annotate le imprese amorose del suo padrone. Un modo antico di fare editoria – si pensi al Muraqqa islamico – vocato al bello, alla cura estrema dei dettagli, al ritorno all’uno di immagini-parole-carta.

Questa collana è una iniziativa editoriale che si propone di selezionare la poesia contemporanea con tutti i rischi che comporta una selezione. Ora potrei sciorinare criteri di serietà e promesse di vario ordine, ma preferisco che a parlare sia il bilancio che dopo un certo periodo di tempo saremo in grado di fare. Alcuni poeti mi aiuteranno in questa selezione; e ci saranno artisti che, ispirati ai versi, trasformeranno i leporelli in gioielli di carta. Il contratto non prevede né spese per gli autori né l’acquisto obbligatorio di leporelli.

Il mio “Etcetera” ha il privilegio di essere il numero uno di questa collana sfrontata e sirenica. “Cercando l’isola” di Salvatore Ritrovato reca il numero due. Per semplificare: un’anima più sperimentale e un’anima più lirica. Insomma, un’isola della poesia.

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