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Di balene di ghiaccio, di semi, di leporelli

recensione di Antonio Devicienti
immagine di Gregory Colbert - Ashes and Snow

Balene di ghiaccio e semi:

sta per aprirsi la quarta edizione del premio di poesia per i giovani La Balena di Ghiaccio o, come viene chiamata con bella metafora, il “IV seme”; si tratta di un’iniziativa complessa e molto, molto interessante: l’ideatrice e animatrice, la poetessa di Capo d’Orlando Maria Grazia Insinga, è partita tre anni fa, mi sembra, da due idee concomitanti: queste lungo la costa nord-orientale della Sicilia sono le terre di Basilio Reale (cui il Premio è intitolato ispirandosi al titolo della raccolta complessiva delle sue poesie pubblicate da Nino Aragno nel 2000), di Vincenzo Consolo, di Lucio Piccolo di Calanovella e del cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di Stefano D’Arrigo, di Bartolo Cattafi, di Emilio Isgrò (il quale, tra l’altro, presiede la giuria del premio e, ricordo, è autore di diversi lavori dedicati al tema e al simbolo del “seme d’arancia”) – e queste sono terre (e mari) che devono continuare a essere fecondi di pensiero e di arte: e Maria Grazia, che è anche insegnante di pianoforte e che crede nel talento dei giovani e dei giovanissimi, da poetessa ha pensato alla metafora dei “semi” che vanno allocati nel terreno, curati e amati perché possano germogliare e fruttificare; è così che, prima di arrivare al concorso vero e proprio, a Capo d’Orlando si svolgono dei seminari-laboratori in cui i ragazzi degli Istituti superiori della città lavorano su testi editi o inediti dei poeti invitati a offrire loro tali testi; ogni seminario ha al suo centro un “archetipo”, cioè una parola-concetto-metafora-immagine intorno alla quale devono ruotare i testi dei poeti invitati a partecipare e, quindi, l’attività laboratoriale dei ragazzi.

Nei mesi primaverili durante i quali si svolgono i laboratori ci sono anche altre iniziative collegate (letture di poesie, un concorso fotografico, incontri), il tutto con il sostegno dell’Assessorato alla Cultura di Capo d’Orlando e dello Spazio Laboratorio Orlando Contemporaneo. Mi scuso per la cosa, ma mi preme tantissimo mettere in evidenza quello che mi appare come il significato anche politico di quest’evento: in una polis qual è quella italiana del Sud depredata di tante giovani menti le quali o cedono alla violenza delle numerose realtà criminali o emigrano o, pur restando, riescono a trovare davvero poco spazio, una polis in cui si perpetua un qual certo fatalismo e una diffusa rassegnazione, nella quale sono sempre meno le figure intellettuali capaci d’esercitare una vigilanza critica, fare appello ai giovani delle scuole superiori, proporre loro di collaborare a laboratori di poesia significa invitarli a compiere un atto eretico e gratuito (grande bestemmia, questa della gratuità, dentro un sistema economico basato esclusivamente sul profitto e sull’imperativo secondo cui qualunque cosa si dica o si faccia debba “servire”, avere uno scopo economico – da qui la sciagurata affermazione secondo la quale con la cultura “non si mangia” e da qui la domanda retorica a che cosa serva la poesia, perpetuando nel contempo lo sprezzante stereotipo del poeta scollegato dalla realtà, morto di fame e con la testa tra le nuvole, inutile a sé e alla sua povera famiglia).

I laboratori di scrittura creativa si propongono, invece, come momenti d’incontro e di riflessione, di creazione e di felice libertà in cui il giovane cittadino vede ampliarsi sempre di più i propri orizzonti di pensiero: ecco, in questi nostri bui anni si stanno proprio ignorando i livelli più alti che può raggiungere la mente umana quando attinge al massimo di gioia e di libertà tramite l’esercizio comunitario delle discipline artistiche – si persuade la gran parte delle persone che ben altrove stia la felicità, ma l’impoverimento psicologico, culturale, umano in atto è fin troppo evidente. Questi ragazzi hanno allora la possibilità, in uno dei cuori paesaggisticamente più splendidi del nostro Sud e contemporaneamente difficile dal punto di vista sociale ed economico, di ripensare sé stessi liberi da condizionamenti e da paure. E le loro menti fertili, creatrici, entusiaste vengono alla luce, rispondono creando. Impensabile la polis senza gli atti creatori delle diverse arti, e infatti venendo meno arte, cultura e istruzione la polis si disgrega, diventa un rancoroso convivere di estranei, inclini all’intolleranza e al razzismo.

Leporelli:

lo scorso anno il Premio è stato vinto da Federica Margherita Corpina, la quale ha avuto la possibilità di pubblicare i suoi testi con la casa editrice Fiorina di Giovanni Fassio: ne è nato un bellissimo “leporello”, vale a dire un volume stampato in digitale su carta fine art e in collaborazione con WestEgg, le cui pagine vengono ripiegate a mano a mo’ di soffietto (simile a quello dal quale Leporello legge l’elenco delle imprese amorose del suo padrone) – ogni volume viene firmato e datato sia dall’editore che dall’autore. In questo caso, oltre che i testi di Federica, nel volumetto sono presenti le opere grafiche di Greta Piazza, Salvatore Emanuele, Michaela Pinto, Gabriele Letizia, Nina Ricciardi, Antonella Maura Tascone, tutti studenti del Liceo Artistico “Lucio Piccolo” selezionati dalla giuria del Premio e che si sono ispirati ai testi di Corpina – chiude l’opera un breve, emozionante scritto di Maria Grazia Insinga che molto bene illustra senso e ragioni del volume.

Ora mi soffermerò brevemente a commentare quest’opera prima di Federica Margherita Corpina intitolata Per fuoco non per tempo. Quello che colpisce nel libro è la maturità espressiva: a diciotto anni è forse (forse) più probabile essere vittime dei luoghi comuni del “poetichese” e delle relative, usurate, immagini e metafore; Federica, invece, lavora sulla lingua, ne comprende subito la centralità e il valore decisivo, ne usa l’incandescenza e la capacità di abbattere i luoghi comuni, d’inventare inaudite virate di senso; oppure è vero anche che, a diciotto anni, si è ancora vicini alla forza sorgiva del linguaggio, per quanto abbia letto e studiato la mente conserva ancora una verginità nei confronti della lingua e del mondo che le consente, con genio da faber e da demiurgo, di aprire la lingua a paesaggi e sensi inediti.

“Questo bianco divora / a volte anonima mi sfido / a inventare una forma”: ecco, questi tre versi d’apertura del libro posseggono una compiutezza e una forza d’enunciato che non lasciano spazio a dubbi: chi scrive così rifiuta estetismi, sentimentalismi, ovvietà – chi scrive così, avendo scelto di tematizzare il sé stessa che diventa donna traverso il prendere coscienza sia del proprio corpo che del rapporto tra questo medesimo corpo e il mondo (tema rischioso, molto battuto e divenuto ormai luogo comune, oggetto di molti rifacimenti “alla Plath”, alla “Sexton”, “alla Pizarnik”), chi scrive così, dicevo, ha già preso le distanze da tali cascami e si è conquistata una propria voce che già appare sicura, estranea a psicologismi e a sentimentalismi. La poesia di Federica Margherita Corpina si struttura per dense immagini e per accostamenti delle stesse che sono accenni e allusioni, per cui tocca al lettore colmare il non detto o il sottinteso.

E allora, al termine di un testo meravigliante per salda costruzione e invenzione metaforica (l’uccellino che impara a volare e per il quale il nido è contemporaneamente luogo da cui allontanarsi e al quale ritornare – ma mi scuso perché quanto ho appena detto non rende affatto ragione della bellezza della composizione la cui forza è nella costruzione linguistica e sintattica, nella fortissima allusività del detto e anche, contemporaneamente, del taciuto) leggiamo: “l’aerodinamica umana / aspira sempre alla magia” ch’è magia dell’essere venuti alla luce del mondo e del conoscere quel mondo, con trepidazioni, incertezze e slanci.

Pelle, ossa, cartilagini (non a caso anche titoli di tre delle cinque sezioni del libro) sono la materia corporea tramite la quale l’io conosce sé e il mondo, ma anche immagini mentali del transitare da parte del corpo verso la maturità, del suo sentirsi attratto o respinto dal mondo – si potrebbe pensare a Paul Celan quando isola un organo del corpo umano (l’occhio, la faringe, il polmone) e ne fa protagonisti assoluti, agenti del e nel testo; sottolineo poi il persuasivo dialogo con le tavole grafiche, delle quali protagonista è sempre il corpo (femminile), carico talvolta di angoscia, talaltra di slancio alla maternità, oppure di erotismo, oppure fluttuante in un sonno che non è allontanamento dalla realtà, ma attingimento di un sovrappiù di realtà e di coscienza.

E il titolo del libro deriva da versi che sanno dire, nel medesimo tempo, l’uguale passione che sono il vivere e lo scrivere, passione figliata dal fuoco e al fuoco destinata (Federica è figlia d’una terra di vulcani, discende dalla sapienza di Empedocle agrigentino, ma anche da un plurimillenario culto dei morti che, sempre, è in rapporto dialettico col culto della vita – cenere/fuoco): “scava lenta la cenere / crematemi torno polvere / per fuoco non per tempo”. È un andirivieni tra sonno e veglia, tra pre-nascita e nascita, tra vita e morte, tra il continente dell’infanzia e quello, nuovissimo, della maturità fisica e psicologica e, trattandosi d’un andirivieni, la lingua è, appunto, mobile e allusiva, sempre tesa e nervosa, com’è giusto che sia nelle fasi di passaggio e di slancio, di apertura e di pudico, ma fermo coraggio, com’è legittimo che sia la scrittura di chi, ogni giorno, ha davanti agli occhi e intorno a sé il “mobile universo di folate”, l’orizzonte marino e le Eolie (isole del vento e dei vulcani, ancora) in lontananza.

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