«Ancor gustate qualche leccornia / di quest’isola, quale non vi lascia / le cose vere scerner dalle false»
(William Shakespeare, La Tempesta)
«Il mare è qualcosa d’indeterminato, illimitato, infinito, e l’uomo, sentendosi in mezzo a questo infinito, è incoraggiato a varcarne il limite»
(G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia)
Riprendendo il filo della prima raccolta, Quanta vita (1997), l’ultima silloge di versi di Salvatore Ritrovato Cercando l’isola, Fiorina, Varzi 2017 torna a proiettare il senso dell’opera su un orizzonte esistenziale di immagini e situazioni legate alla navigazione. L’ombra di Walter Benjamin, benché il suo nome risulti assente dalla grande messe di citazioni che affollano i versi, si staglia forse piu di ogni altra sullo sfondo delle pagine, come una tela su cui si accingono a prender forma i più svariati moti d’animo. L’adesione a tale orizzonte sembra essere, invero, sia filosofica che estetica.
Filosofica giacché l’idea di realtà che i componimenti lasciano intravedere, rassomiglia per molti aspetti a quella di un arido deserto o di un cumulo di rovine. Estetica in quanto, come Benjamin riteneva, il presente appare talmente frammentato e parcellizzato che per restituirne l’unità, ovvero per attingere una qualche forma di universale, sembra non si possa far altro che ricorrere all’allegoria. Ma vi è un terzo elemento che ci riconduce ancora entro il quadro prospettico del filosofo tedesco, e che costituisce, in qualche modo, una delle chiavi con cui prepararsi ad aprire il forziere di questi versi: l’ostinato rifiuto ad accettare deserto e rovina come traguardi ultimi dell’umanità, la risoluta perseveranza con cui viene ricercata spasmodicamente quella che per l’appunto Benjamin designava come una via d’uscita dalle macerie.
Qui si introduce allora il motivo del nostos, fulcro tematico del volumetto. Questo termine, che presta il nome ad uno dei componimenti («ma la nave andava come un albero / che stende i suoi rami al vento», Nostos), indica, sappiamo bene, nostalgia, ma significa anche, come noto, viaggio di ritorno, sicché se da un lato appare legato alla mancanza e alla pena, dall’altro resta inseparabile da quella massa di sentimenti che il viaggio (ancorché di ritorno – basti qui tener presente soltanto l’antecedente dell’Odissea) reca con sé: desiderio, ricerca, tentazione di conoscenza. Il tema della nostalgia dunque, assiepato tra i versi di queste poesie («su quest'isola nessuno parla più la lingua di un tempo, / anzi nessuno parla più, resiste qualche ombra / appesa a un chiodo come ricordo di un altro mondo», Perduta chi sa dove;
«Una lama bizzarra di ricordi recide l’ugola / della nostra indifferenza a ogni ritorno». Ultime notizie di Ulisse), non va separato dal tema del viaggio in direzione di una nuova terra che riconferisca un più stabile equilibrio tanto agli spasimi dell’anima quanto a quelli del mondo («un’isola, un approdo, un porto di mare...», Incipit). Un viaggio verso una nuova condizione storica ed esistenziale, verso un’isola, dunque, che non sia foggiata di «solo silenzio», ovvero di macerie, stagni asciutti e cuor[i] stanc[hi], qual è quella che sembra profilarsi sull’orizzonte di questa galassia occidentale, vale a dire di questa nostra «civiltà perdente» (Perduta chi sa dove).
Strumento privilegiato di questo viaggio sembra essere la scrittura e per certi versi la poesia stessa («Che cosa stringe allo stesso cielo il mio respiro e questa carta? / Sento in ogni verso un lungo interminabile naufragio», Incipit). Da questo punto di vista, il rapporto con il verso scritto che viene evocato, sembra collocarsi entro quel solco attitudinale che in Italia, più di ogni altri, Amelia Rosselli aveva contribuito a tracciare. Non è un caso ch’essa amava definirsi poeta della ricerca. E non è un caso, pur tenendo conto della profonda distanza che intercorre tra le loro scritture, il largo ricorso agli enjambement dei due poeti, quasi a voler ridurre al minimo i momenti degli approdi per ingenerare, nel lettore, il senso di una incessante navigazione.
Ad ostacolare gli ancoraggi (ma si badi bene non tanto per un voluttuoso piacere di viaggiare quanto per una bramosia di attracchi più significativi), oltre all’enjambement interviene il frequente ricorso all’ironia e alla parodia, sintomo di quella «civiltà perdente» precedentemente menzionata (come, d’altro canto, erano il sintomo delle contraddizioni del mondo ellenico il teatro di Aristofane e della dissoluzione della cavalleria l’opera di Cervantes). Apre significativamente la raccolta Ulisse, iniziatore letterario di tutti i viaggi, con il suo corollario di figure tratte dall’Odissea: la maga, la sirena, Nessuno. Ma quel Nessuno diventa, nel suo significato letterale, parodia del significato letterario e chiude quel senso d’angoscia tutto moderno con cui si apre il componimento: «Al porto s’imboscano ostinatamente / immoti e radi gli umori della luna».
L’Ulisse stesso di cui si parla, quindi, nonostante il circondario figurale sopra menzionato, sembra rassomigliare, per molti aspetti, più all’Ulisse di Joyce che a quello di Omero. In questa mescolanza di scenari e personaggi si cela ancora una volta l’intento di ostracizzare i facili approdi, rifiutare le isole limitrofe e le certezze vane. Ma quali sono queste certezze? Sono, ci suggeriscono i versi, le certezze delle superfici, i detriti delle illusioni, costrette a lungo andare ad essere travolte dal vento della realtà:
Certi uomini trascorrono sopra la loro vita [...]
Prendi questo vento, faccio a chi vive sopra.
Violento spazza ogni rumore dalla terra
rovista, strazia ombre e giorni,
laggiù le porte cigolano sui cardini di rame.
E dove vanno? Gli ospiti che incontri
ti diranno che hai la febbre
non esiste altrove, sopra, che la mente.(Solaris)
Il vento, pertanto, veicolo della trasformazione, uccide chi sta sopra. Chi sopravvive tra la scorza dell’esistenza e non trova il coraggio di immergere anima e corpo nella polpa della vita. Costoro, appaiono al poeta, ancor più che sotto la veste di sonnambuli, sotto quella di cadaveri, sicché le loro voci, il loro reiterato invito ad abbandonare i sottosuoli e le correnti sotterranee per vivacchiare tra le schiume esteriori, suonano all’io poetante come voci che provengono direttamente dalle bocche degl’Inferi: «“Lascia perdere il sentimento; / si sta bene... Senti che silenzio!” / fece una voce nella tenebra viva / che sembrava uscire dall’inferno» (Nostos). Ma questa tirannia della superficie, più che riguardare alcune schiere di individui, sembra coinvolgere lo spirito di un’intera epoca.
Riecheggiano invero in questi ultimi versi, sia qui concesso lo strano, ma a ben vedere calzante parallelismo, le parole che Bukowski, nel racconto Rosso come un giaggiolo, pronuncia al dottore in una delle sue Storie di ordinaria follia: «L’uomo è vittima di un ambiente che non tien conto della sua anima». È questo intero ambiente che, ci suggeriscono le parole e le perifrasi di Cercando l’isola, verrà ricacciato nei suoi fondachi dal vento della storia, ovvero della trasformazione. Come e quando questo avverrà resta un mistero: quel mistero che, dal principio alla fine, aleggia fra i versi di questa raccolta e che l’insieme di allegorie, diminutio e parodie concorrono ad alimentare nel petto non meno che nella mens del lettore.